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martedì 4 ottobre 2011

Apologia della "Signora in giallo": una breve riflessione sul caso Meredith Kercher

Suscitano un po' di bonaria e affettuosa ironia, i telefilm della "Signora in giallo" (una grande impicciona), dell'Ispettore Derrick e di Hercule Poirot.

Con la loro astuzia e a volte la precisione di una macchina, nel ricostruire le sequenze dei delitti e nel ricordare i particolari, mettono alle corde i colpevoli, che, ingenuamente, confessano, sempre. Non c'è quasi bisogno del processo a quel punto, sembra tutto concludersi grazie alla sagacia del detective.
Eppure questi serials un fondo di verità ce l'hanno. Essi sono testimoni di una generazione di investigatori in estinzione, quelli che fino a venti anni fa non potevano servirsi della prova del dna, e che dovevano far cedere l'inquisito con l'ingegno, con stratagemmi, con una ricostruzione abile e sapiente della dinamica del crimine.

Ai tempi d'oggi assistiamo alla condanna di Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, incastrato da una prova del dna che proverebbe che il morso sul seno della ragazza aveva la forma della sua arcata dentaria e comunque infallibilmente conduceva a lui.

Dopo questa prova discutibile, (insufficiente per alcuni criminologi di fama) tutto il resto è diventato carta straccia: il fatto che il luogo del delitto era stato pulito con estrema accuratezza (troppa, per una persona sola), anni e anni di testimonianze, deposizioni, sopralluoghi. Tutto nel cestino.

Ieri Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti in appello dopo la caduta delle prove scientifiche contro di loro: per colpa degli errori di chi effettuò l'esame del dna, esso non è più attendibile.

Il pubblico ministero Giuliano Mignini ha imbastito un castello accusatorio in cui l'unica prova forte era appunto l'esame della scientifica; quando questo si è rivelato nullo, ecco ai due ragazzi schiudersi le porte del carcere. La Knox andrà in America, a casa sua, e, Cassazione o no, non la rivedremo più.

La sentenza emessa, di cui le motivazioni si conosceranno entro novanta giorni, è di "assoluzione perchè il fatto non sussiste". Badate bene: non di "insufficienza di prove", che indicherebbe che qualcosa che porta a loro c'è, ma è insufficiente.
Questa "non sussistenza" del fatto è un fallimento su tutti i fronti non solo della tesi accusatoria, ma dell'attività investigativa del pubblico ministero e delle forze dell'ordine.

Gli imputati possono essere riconosciuti colpevoli o innocenti, ma bisogna ricostruire la verità, e questo non è avvenuto. Non c'è stata una ricostruzione attendibile dei fatti, non si è riusciti ad avere testimonianze esaurienti, non si è scavato sui rapporti precedenti al delitto tra la vittima e gli imputati. Cosa avevano fatto insieme nei giorni precedenti le due coinquiline Amanda e Meredith?

Quante persone hanno visto i ragazzi prima che il delitto avvenisse? Quante persone avrebbero potuto fornire ulteriori elementi?
In parole povere, una ricostruzione credibile e basata sulla logica, non è stata fornita dall'accusa.

E allora l'investigatore di vecchio stampo, "a mani nude", che coglieva dettagli, sfumature, che giocava psicologicamente coi sospettati, e che esisteva nella realtà e non solo nei telefilm, diventa l'eroe di questi giorni, un uomo, e perchè no, una donna che non c'è più.

Ed è un postulato molto drammatico, al di là dei riferimenti letterari e televisivi.Un postulato che ci rivela che la giustizia moderna, non solo italiana, ha dei difetti gravi, che permettono ai delinquenti di farla franca, chiunque essi siano.

Rudy Guedè ha ucciso da solo? E se non era solo, come dice la sua condanna definitiva sancita dalla Cassazione, chi sono i suoi complici?

E' questa la vergogna di cui gli italiani parlano nelle ultime ore, non per l'assoluzione degli imputati, ma per la convinzione che qualcosa non quadra, e che la giustizia ha perso in quanto incapace di dare risposte credibili.

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