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giovedì 26 marzo 2009

Cinema - Takeshis'


Parlare di Takeshis’(scritto proprio così, non è un genitivo sassone), presentato fuori concorso alla mostra del cinema di Venezia del 2005, non è semplice.Kitano con esso volle recitare il requiem del suo vecchio modo di fare cinema; si sarebbe dedicato ad altri temi, tra cui alcune tematiche femminili. L'artista Giapponese aveva da tanto tempo in mente di fare questa opera autobiografica, vincendo solo dopo diversi anni le riluttanze dei suoi produttori. Essi avevano intuito la rischiosità del film, inizialmente concepito in maniera ancora più sofisticata di come appare attualmente.

Takeshis’ è un film bellissimo, colto, elegante formalmente e nei contenuti, con una fotografia superba. Il suo unico grave difetto, che però è almeno in parte, inscindibile dagli elementi che ne fanno un’opera magnifica, è che è un film complesso, di non facile lettura.

Due sono le reazioni che può avere lo spettatore che si imbatte in questo film: la prima è di noia, dopo 5, 10, 20 minuti o più, a seconda della pazienza individuale e dello stato d’animo.
La seconda è quella di chi comunque comprende di essere di fronte ad un’opera complessa, ma densa di significati e di raffinate invenzioni, nonché pervasa da un’atmosfera onirica e rarefatta.

E’ un film che assomiglia molto a “8 e mezzo” di Fellini, con i suoi riferimenti autobiografici e le fantasie che si sovrappongono una sull’altra senza un’apparente logica. E anzi Kitano gioca fino all’ultimo fotogramma con lo spettatore: proprio mentre la narrazione sembra ricondursi alla realtà, tutto diventa di nuovo oscuro.

Se però si segue il consiglio dato dallo stesso autore, ovvero quello di godersi il film come un susseguirsi di immagini che non sono altro un collage di sue fantasie introspettive, il film può diventare molto piacevole. Il regista raccomanda di guardarlo più di una volta, per comprenderlo appieno.

Aggiungo io: fatelo, ne vale la pena.

Piccola introduzione al film
Takeshi Kitano è ormai un uomo affermato: dopo essere stato per molti anni un amato istrione televisivo (ricordate “Mai dire Banzai?” In Giappone si chiamava Takeshi’s castle e lui ne era l’autore), oggi è una star internazionale con fans in tutto il mondo.


Kitano fa un film in cui immagina di incontrare un suo sosia, che gli viene presentato da un suo vecchio collega.
Lui fa finta di non riconoscere il suo vecchio collega (si tratta di un'altro veterano del programma Mai dire Banzai), ma costui gli offre una sorprendente scoperta: c'è un uomo che gli assomiglia come una goccia d'acqua e glielo presenta.

Si tratta di un umile commesso di un supermarket. Kitano rivede in lui sè stesso da giovane. All'epoca aveva un’esistenza stentata, senza gloria e faceva provini cinematografici nell’attesa che qualcuno si accorgesse di lui.

Il maturo attore e regista decide di fare di questo Carneade il protagonista del suo nuovo film. All'opera parteciperanno tutte le persone che affollano la sua vita di tutti i giorni: la sua ragazza, la sua ex moglie, il suo assistente, la sua produttrice, due comici obesi (“300 chili di barzellette”) e un padre che, come nella tradizione, fa fare al figlio adolescente ruoli di donna nel teatro giapponese.

Come contrappasso, l'ex moglie interpreterà un’arpia onnipresente che gli metterà continuamente i bastoni tra le ruote; il suo assistente, che tratta male un tassista ma secondo Takeshi non è nemmeno in grado di guidare un’auto, farà proprio il conducente di un taxi; la sua giovane fidanzata, visto che ha fatto gli occhi dolci al suo ex amico, sarà la ragazza di costui.

Inoltre vi saranno anche altri personaggi, come quelli che giocano al Majong con lui, compreso un esponente della jakuza.  Anche i giovani di una compagnia di danza, con cui lui si sofferma a scherzare negli studi televisivi, faranno parte del film.



Tutto il suo mondo, insomma, si traspone nel suo alter ego sfortunato, impersonato da un clown senza successo.

Nel mondo del Takeshi povero, tutti i personaggi della vita del Takeshi reale sono altre persone, e fanno una vita diversa.

Il Takeshi clown sogna di sfondare nel cinema, fa delle audizioni, ma viene costantemente deriso.
In un mondo in cui prevale la maleducazione e i miti del cinema sono proprio quei Takeshi Kitano dei Gangster movies, che credono di risolvere tutto con delle revolverate, lui ha vita dura.
 

Un giorno, finalmente, la sua vita cambia: diventa un attore professionista, vincendo un provino; avrà soldi, ricchezze, donne.

Il film si conclude dove era iniziato: Il Takeshi ricco e famoso si sveglia, si è appisolato durante una seduta di body painting; si torna alla realtà dopo una straordinaria avventura onirica che coincide col film stesso.


Scene di grande pregio.
Nel film si possono isolare dei momenti di grande cinema: esso è così denso di riflessioni, di stranezze tipiche dei sogni e di atmosfere rarefatte, che esso non può essere classificato nella media di un semplice buon film.

Facciamo qualche esempio.
- La simbologia del Taxi: quell'auto che Kitano guida rappresenta il mondo del cinema in cui tutti vogliono entrare, per diventare attori.
Alla fine , tutto si risolve in una sparatoria e tutti diventano degli astri luminosi volando in cielo: si trasformano, insomma, in stelle del grande schermo.

- La ripetizione quasi ossessiva della scena in cui Takeshi Kitano spara con ben due pistole è riproposta in tutte le salse, anche al rallentatore.


L’autore è esausto di fare lo stesso tipo di film.

C’è voglia di autoironia: il vero Kitano non è quello davanti alla macchina da presa, sempre sicuro, che non muore mai nonostante tutti gli sparino. E’ una persona normale, che ora è rispettata per la sua posizione di potere, ma una volta non lo era.
E’ un uomo in cui covano delle insicurezze, come nel Takeshi-clown. Il pagliaccio è la parte di lui che si sente tradita.


- Anche col balletto del mafioso morente, molto divertente, e con la sparatoria che lo accompagna, si vuole fare pulizia, una volta per tutte, del vecchio film yakuza.


Sono sparatorie catartiche; Kitano le mette in scena per l'ultima volta per poi sbarazzarsene definitivamente.

- Verso la fine, c’è una bellissima scena in cui la sua ragazza esegue su una spiaggia, con un pallone da calcio, un perfetto esercizio di ginnastica artistica, come quelli che si vedono alle olimpiadi.
La spiaggia probabilmente è vera, anche se Takeshi ha fatto vedere mezz’ora prima come, grazie a degli ottimi schermi che fanno da sfondo, si può creare una location grandiosa e realistica.

“Sono solo films, non sono la mia vita vera”, sembra continuare a dire il regista nipponico, che si permette il lusso di far resuscitare anche i personaggi che poco prima aveva ucciso: è quasi un invito per lo spettatore alla non emulazione e a distinguere tra finzione e realtà. Sa probabilmente di aver dato il cattivo esempio, indirettamente: un film sulla mafia è visto da tanta gente, e non tutti hanno sufficiente senso critico per guardarlo nella giusta maniera.
 

Takeshi's sembrava un capitolo chiuso nella storia del suo autore. Era il 2005, nel frattempo egli ha prodotto altre opere, ma dopo qualche tentativo, è tornato al filone "gangster". La vita è fatta anche di cambiamenti e di ritorni.






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