La percezione dell'arte a volte cambia con gli anni, con gli umori del momento e con le fasi della vita.
Era il 1998 quando questo film uscì nelle sale. Ricordo che andai a vederlo al cinema. Sarà stato il mio stato d'animo del momento poco ben predisposto, sarà stata la mia stanchezza verso la cinematografia americana sempre pronta ad esagerare e ad andare fuori dalle righe, ma il film mi infastidì un poco.
Lo liquidai come una storia strana e con il gusto dello strambo e del macabro, tra dita mozzate, persone grezze e scapestrate, fricchettoni mezzo punk e mezzo nazisti, John Turturro in versione maniaco che lecca la palla da bowling e così via.
Qualche mese fa mi è tornato in mente questo film che tanto piaceva ai miei compagni di comitiva di allora, che come me avevano diciannove anni.
Ho voluto rivederlo dopo tanto tempo, giusto per confermare le mie vecchie impressioni.
Stavolta però l'Andrea del 2023 ha avuto un impatto diverso col lungometraggio in questione.
Il film è simpatico, leggero, sebbene succeda un po' di tutto e ci siano episodi abbastanza spiacevoli.
Jeff Bridges all'epoca aveva già 48 anni, ma da attore tipico di Hollywood era sempre in grande forma e sembrava più giovane. Inoltre era di bell'aspetto e curato, col visetto pulito delle classi medio alte. Forse fu per questo che i fratelli Coen ci si misero d'impegno, non riuscendoci nemmeno tanto, nel renderlo sgradevole alla vista.
Aveva i capelli lunghi, la barba folta, era sporco, trangugiava latte in maniera scomposta, sciorinava parolacce a destra e a manca.
Tutto sommato il Lebowski di Jeff Bridges è un pacifista ed ex figlio dei fiori che cerca di appianare ogni tipo di contrasto.
Non si sa come viva e sopravviva nella costosa Los Angeles, visto che non lavora.
Lebowski si trova suo malgrado invischiato nei guai provocati da altri. Un boss della mala (il sempre ottimo Ben Gazzara), un suo ricco omonimo con una giovane convivente spilla soldi e la sua giovane figlia creano una dinamica di inganni e di estorsioni.
Il Lebowski povero, detto Drugo, viene messo in mezzo ad una storia più grande di lui, mentre lui vorrebbe solo giocare a bowling e bighellonare con i suoi due amici.
Tra questi c'è un Ben Goodman versione scemo di guerra pericoloso. E' un deviato violento provato dalla guerra del Viet Nam con un senso della giustizia tutto suo. Tuttavia non manca di momenti di tenerezza e di debolezza.
E' una bella trovata: il veterano del Viet nam e il capellone pacifista, più il terzo della comitiva, un giovane biondo e semplicione, sono tutti e tre amici sinceri e inseparabili.
I Lebowski padre e figlia usano il loro omonimo povero per i loro scopi.
Il proletario straccione e anche un po' fesso è quello che tutto sommato rischia di lasciarci le penne.
La Lebowskina è interpretata da una giovane Julianne Moore, come al solito all'altezza della situazione e molto attraente.
Ella non mancherà di offrirsi al Lebowski straccione, approfittando della sua non ostentata prestanza fisica, ma per mero tornaconto personale.
I fratelli Coen a tratti creano delle scene oniriche di grande potenza visionaria, con trasvolate all'inseguimento di un tappeto volante sopra Los Angeles e i viaggi tra i birilli animati in cui appare anche Saddam Hussein (gli autori fanno risalire i fatti a qualche anno prima del film, ai tempi della prima guerra del golfo).
Notevole è anche la scena, non frutto di un sogno, della festa nel giardino del boss, in cui dei ragazzi estasiati e belli fanno volare su un improvvisato trampolino per salti una altrettanto splendida ragazza in topless. L'azione si svolge al rallenty con una musica molto particolare e azzeccata.
In quel momento il cinema di Fellini riecheggia in qualche modo tra gli sfarzi edonistici.
E' una storia di cialtroni, sfruttatori e ipocriti, di ricchi e di poveri a confronto, di gente più o meno onesta che viene a contatto con dei delinquenti.
E' un mondo precario in cui poche amicizie e frequentazioni reggono e che viene alleggerito dalla verve comica delle situazioni surreali che via via si creano.
Il film nel finale lascia in bocca un sapore agrodolce e un senso di divertimento.
Tuttavia, in una storia come questa e nel suo mondo di squinternati c'è poco da stare allegri.
Quanto al sottoscritto, mi sono trovato a rivalutare il film.
Sotto la scorza del prodotto americano pazzoide, il progetto dei fratelli Joel ed Ethan Coen ha una sua coerenza, una sua cifra stilistica e a tratti anche qualche squarcio di raffinatezza.
Mentre nelle solite "americanate su pellicola" il gusto per la stranezza è fine a sè stesso, ne "Il Grande Lebowski" la bizzarria trova la sua ragione di essere e dà personalità all'opera.