Un “braccio di ferro a Berlino” è ciò che occorre, secondo l’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per rilanciare il governo di grande coalizione guidato da Enrico Letta. Una trattativa estremamente ardita per rafforzare la potenza di fuoco della Banca centrale europea: “O è così o ciascuno deve trovare le proprie soluzioni nazionali o regionali, scomponendo i meccanismi dell’area dell’euro”.
Euro break up, insomma. Non è affatto casuale che questo “braccio di ferro”, come l’ha chiamato il Cav. nella sua intervista di ieri al Foglio, si debba giocare a Berlino. Non soltanto perché la Germania è la prima potenza economica dell’Unione europea, ma perché per giocare a braccio di ferro bisogna essere in due, e Berlino – nonostante il wishful thinking di chi legge le esternazioni del Cav. soltanto in chiave domestica – in questo gioco si sta cimentando da tempo, come dimostrano alcune evoluzioni della politica monetaria e fiscale dell’Eurozona.
Per decifrare le forti pressioni politiche in arrivo dal governo di Angela Merkel, si parta dalla politica monetaria. Due giorni fa il presidente della Bce, Mario Draghi, ha parlato e ha fatto deprimere i mercati. Le Borse si riprenderanno, ovvio, ma intanto molti osservatori iniziano a contare i giorni prima che svanisca l’effetto “scudo” della politica monetaria espansiva. Lo spread a quel punto tornerà a salire, con annessi aggravi di spesa per le finanze pubbliche e con ulteriori strette sul credito privato. Ai mercati non è piaciuta la temporanea ammissione di impotenza di Draghi: niente tagli al tasso di riferimento, niente misure straordinarie per le Pmi (rimangono “allo studio”), niente tassi negativi sui depositi bancari.
Occorre un’Unione bancaria dotata di un efficace meccanismo di risoluzione delle banche in crisi, ha auspicato Draghi, ma anche su questo nessun passo avanti. Innanzitutto perché il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha chiarito che un’Unione bancaria troppo “unita”, in cui supervisione finanziaria e meccanismo di risoluzione siano gestiti dalla Bce, non va giù ai tedeschi e ai loro banchieri, se non nel lungo periodo.
Non solo: mentre Berlino ripete il mantra della necessaria “non interferenza” degli stati membri nella politica monetaria, in Germania è partita un’offensiva contro la scelta finora più coraggiosa ed efficace di Draghi, quella dell’Omt – cioè l’Outright monetary transactions, l’ipotesi di acquisto illimitato di titoli di stato di paesi in crisi – che ha placato lo spread e le aggressioni ai debiti sovrani a partire dalla scorsa estate. La prossima settimana a Karlsruhe si inizia infatti a discutere un ricorso anti Omt depositato da un parlamentare tedesco davanti alla Corte costituzionale federale tedesca. La Banca centrale tedesca, la Bundesbank, azionista di maggioranza relativa della Bce, non si è fatta sfuggire l’occasione e curiosamente ha preso le parti del ricorrente. Così la settimana prossima il presidente Jens Weidmann, ex consigliere di Merkel, sarà in tribunale a censurare pubblicamente Draghi, mentre quest’ultimo dovrà difendersi con tanto di avvocati (vedi articoli sotto). Siamo alla riproposizione dello stallo durato mesi e che caratterizzò il 2012, quando i vertici europei si chiudevano regolarmente con conclusioni ben poco definitive, essendoci allora il timore che i giudici di Karlsruhe facessero saltare il Meccanismo europeo di stabilizzazione, l’Esm. Sul Sole 24 Ore di ieri, Donato Masciandaro, bocconiano pacato e massimo esperto di Banche centrali, ha parlato apertamente di “ostilità tedesche” verso le scelte di Draghi e ha spiegato che dietro “il conservatorismo della Bce” ci possono essere non ragioni economiche ma “ragioni tattiche, legate alla politica interna tedesca”.
“E’ un dubbio lecito che andrebbe fugato”, ha concluso Masciandaro, perché “l’incertezza genera incertezza, rischiando di minare la credibilità della Bce come autorità di tutela della moneta europea, indipendente da ogni politica affetta da miopia. Anche se di matrice tedesca”. Da martedì dunque, a Karlsruhe, l’establishment teutonico riprende un nuovo round decisivo a “braccio di ferro”. Chi non vi partecipa, come dimostrano i rendimenti sui bond statali che tornano a salire e il credito bancario che si continua a inaridire nei paesi periferici, ha soltanto da perdere. Certo, anche l’economia tedesca rallenta (ieri la Bundesbank ha detto che il pil crescerà dello 0,3 per cento quest’anno e non dello 0,4, l’anno prossimo dell’1,5 e non più dell’1,9), ma la situazione è anni luce da quella italiana o spagnola, a partire dai prestiti bancari che continuano ad affluire verso imprese che tra l’altro si possono finanziare convenientemente anche sul mercato obbligazionario. Così la Germania, che pure ha fatto le riforme strutturali per tempo (era l’inizio degli anni 2000, quando Berlino sforò il tetto del rapporto deficit/pil senza ricevere sanzione alcuna), da tempo si può permettere di osannare la prospettiva a lungo termine dell’Unione politica europea, salvo renderla irrealizzabile qui e ora (no all’Unione bancaria, no agli Eurobond, no a più fondi all’Ue, eccetera). Eppure, come ha spiegato al Foglio l’ex vice di Ben Bernanke, Donald Kohn, e come ha detto ieri il premio Nobel Paul Krugman, una Bce che non ha alle spalle una struttura di protezione fiscale unica non può fare molto di più di quanto faccia oggi. Intanto, anche sulle modalità con cui gestire il coordinamento delle politiche fiscali nazionali, Berlino continua con il suo “braccio di ferro”. Si prenda il caso esemplare della Grecia. Questa settimana il Fondo monetario internazionale ha pubblicato un rapporto su Atene, facendo mea culpa sugli errori commessi nel 2010.
Il problema non è soltanto l’eccesso di austerity e i suoi effetti recessivi presi un po’ sottogamba, come vuole la vulgata. Piuttosto, sostiene Luigi Zingales, economista dell’Università di Chicago non etichettabile come neokeynesiano spendaccione, “la vera colpa ammessa dall’Fmi è di non aver tentato, fin dall’inizio, una ristrutturazione del debito”. Cioè un default controllato che riducesse il fardello del debito pubblico di Atene e consentisse di concentrarsi su rigore temperato e riforme strutturali. Allora un coinvolgimento dei privati, tra cui molte banche tedesche e francesi, avrebbe creato più danni che altro, era la tesi dell’Ue a trazione tedesca, accusa il Fmi.
Dunque non solo in Grecia, dice Zingales, ma anche in Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia, “la Troika ha scelto di imporre tutto il peso dell’aggiustamento sui paesi debitori, senza considerare che l’errore non è solo di chi prende a prestito, ma anche di colui che questi prestiti concede”. Il Fmi ha fatto mea culpa, ma a Berlino quando ci penseranno? Per ora, Cav. o non Cav., la leadership tedesca continua con il braccio di ferro.
Minacciare Berlino, poi uscire davvero. Per Bootle è “l’idea più ragionevole”
di Marco Valerio Lo PreteNon bisogna soltanto far capire a Berlino che Roma è pronta a uscire dall’euro se l’architettura della moneta unica non cambierà. Bisogna poi farlo davvero. Perseguire questa linea “è l’idea più ragionevole”, dice al Foglio Roger Bootle, fondatore e direttore di Capital Economics, commentando l’intervista di ieri al Foglio dell’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Soltanto così si può contrastare il processo di “deindustrializzazione” in corso, visto che i dislivelli di competitività tra paesi dell’Eurozona sono ormai viziati anche da effetti monetari e di costo indipendenti dalle riforme che pure vanno portate a termine. Bootle è a capo di una società di ricerca economica britannica con sede tripartita tra Londra, Singapore e Toronto, dirige 40 economisti e rifornisce con i suoi report 1.500 tra banche d’investimento e operatori in tutto il mondo. Soprattutto, Bootle nel 2012 si è aggiudicato il premio più importante per le materie economiche dopo il Nobel, cioè il Wolfson Prize. L’anno scorso il premio ha avuto particolare risonanza sui media internazionali ed è stato apprezzato dal Financial Times perché finalmente sdoganava quello che fino a quel momento era stato un tabù nel dibattito pubblico: avrebbe vinto infatti chi avesse studiato la via migliore, per un paese qualsiasi, per uscire dall’euro. Bootle si è meritato le 250 mila sterline per il primo classificato e ora commenta così l’idea di Berlusconi: “E’ un’opzione reale, è fattibile, non è impossibile”. Anche per un paese grande come l’Italia, con un pil di 1.600 miliardi di euro e un debito pubblico ancora maggiore? “Per me è l’opzione più realistica”. Il piano di Bootle – al netto di dettagli pur importantissimi – prevede che un paese abbandoni la moneta unica tenendo i suoi piani “segreti” fino all’ultimo, poi introduca controlli di capitale, inizi a stampare moneta subito dopo l’uscita formale, faccia default sui suoi debiti, ricapitalizzi le banche e, anche attraverso la naturale svalutazione monetaria, punti tutto sull’export e sulla cooperazione con i paesi rimasti nell’euro. Non è una passeggiata, sia chiaro, ma per l’economista inglese gli effetti complessivi sarebbero migliori del “decennio di stagnazione” cui è condannato oggi il nostro paese. Bootle, in passato consigliere economico dei governi conservatori, osserva che non tutto il processo di “distruzione” innescato dal ciclo economico è lì per nuocere. “E’ normale che i settori più inefficienti siano penalizzati, poi però è normale pure che si abbiano altre occasioni di reimpiegare capitale e forza lavoro”. E’ questa seconda fase che oggi, almeno in parte, viene a mancare per le rigidità dell’euro. C’entrano anche le mancate riforme strutturali, certo, e il fatto che allo stesso tempo sia venuta a mancare l’arma della svalutazione della lira per riguadagnare competitività. “Oggi quindi il tasso di cambio reale rispetto ad altri paesi dell’Eurozona, in Italia ma anche in Francia e Spagna, è cresciuto troppo. Ci sono tre opzioni per recuperare: facendo aumentare la produttività, si può arrivare a guadagnare un quarto di punto l’anno ma quanto ci si impiega per recuperare un gap del 30 per cento? Poi si possono tagliare i salari, come in Grecia e Irlanda, ma l’economia si deprime e il debito aumenta. Non è il massimo. Infine si può svalutare la moneta e riguadagnare subito competitività. Nel caso dell’Italia si dovrebbe uscire dall’euro”. Berlusconi però non si definisce un sostenitore della fine della moneta unica, piuttosto propone di trattare con Berlino tenendo questa ipotesi estrema sul tavolo. “Effettivamente almeno due cose si potrebbero cambiare nell’attuale governance economica. Primo, chiedendo che la Bce attivi una politica di Quantitative easing in stile Fed. Secondo, rilassando la politica fiscale nei paesi del nord virtuoso e sostenendo così la periferia”. Il fondatore di Capital Economics però avverte: “La Germania non si muoverà. I tedeschi hanno un blocco mentale rispetto all’uso della politica monetaria. Pensano che davvero gli indicatori di ‘competitività’ abbiano sempre un significato ‘reale’, cioè ci dicano se l’operaio italiano sa o non sa fare bene una certa cosa. Mentre nella realtà pesano fattori di costo e monetari che con l’abilità dei lavoratori c’entrano poco. Provino a fare Mercedes in Italia, per esempio, con l’accesso al credito che c’è da voi”. Per Bootle però Berlino considererà soltanto l’elemento di “ricatto” in quello che pure fosse un tentativo di “brinkmanship”, come l’ha definito ieri Michele Salvati sul Corriere della Sera, cioè una politica che consiste nel “manovrare una situazione rischiosa, ai limiti della sicurezza”: “Berlino andrà a vedere l’ipotetico bluff e non si muoverà. Se l’Italia a quel punto non desse seguito ai suoi intendimenti di abbandonare l’euro, perderebbe tutta la credibilità. Se invece si decidesse a farlo, dovrà avere un piano dettagliato, altrimenti anche l’aggiustamento improvviso avrà effetti dolorosi”.
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