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venerdì 18 luglio 2008

Sport/calcio Reprimere la gioia del goal

Quando ero bambino, ho frequentato, a più riprese, ma per poco tempo, complessivamente, la scuola calcio della Renato Curi, che, nel settore giovanile, è sempre stata molto competitiva.L'allenamento si svolgeva in due parti: 40- 50 minuti di esercizi e 15 -20 minuti di partitella finale. Gli esercizi li svolgevo molto di malavoglia, sia quelli che riguardavano la tecnica individuale, come il palleggio ad esempio, che quelli che insegnavano dei veri e propri schemi di gioco.

Erano lezioni tutt'altro che facili, sebbene fossimo bambini: si può dire che la tecnica individuale vera e propria viene impartita quando si è bambini, mentre quando si cresce gli allenatori sono sempre meno propensi ad impartirti certi gesti atletici. La tattica, invece, viene affinata in età adulta.

Ebbene, finiti gli esercizi, in cui il "mister" qualche volta mi riprendeva, svolgevamo la consueta partitella. Lì, sorprendendo un po' tutti, mettevo in mostra buone doti, e la cosa particolare è che segnavo sempre.

In quel momento mi rendevo conto di una cosa strana: quando segnavo io o altri bambini che stavano nella scuola-calcio da meno tempo, esultavamo, come è giusto che fosse, e ci abbracciavamo, proprio come si fa in serie A.

I bambini più smaliziati, che erano lì da due o tre anni, quando facevano un goal rimanevano impassibili, reprimendo l'istintivo gesto di sollevare le braccia al cielo o di emettere un grido.
Tale gesto mi sembrava di uno snobismo particolare: loro erano già piccoli calciatori navigati, avevano una tecnica invidiabile, probabilmente erano spinti in maniera più seria dalle famiglie a fare i calciatori.

Questa tendenza l'ho ritrovata negli ultimi anni, guardando le partite dei campionati professionistici.

Ci sono giocatori che, quando segnano contro la loro vecchia squadra, per una forma di rispetto, non esultano.
I giornalisti anche, avendo ormai assimilato questa variante del goal, chiedono prima della partita ad un "ex" se il giorno dopo esulterà se dovesse segnare.

A me , francamente, il fatto di non esultare sembra una repressione forte dei propri sentimenti, oltre ad essere una cosa un po' ipocrita.
I giocatori cambiano una decina di squadre in media nell'arco della loro carriera: se rimangono in buoni rapporti con buona parte delle loro tifoserie, cosa devono fare? Non devono festeggiare contro almeno 6 o 7 avversarie?

Il Goal è una delle vette emotive più alte del calcio, è la ragione per cui buona parte di noi ragazzi, da bambini, sognavamo ad occhi aperti di fare il calciatore:

"Sto giocando in serie A, con una squadra importante.
Alcuni dei miei compagni e avversari sono quei giocatori che seguivo quando ero bambino, giunti ormai ad un'età da fine carriera: salto due, tre avversari, mi avvicino all'area di rigore, e con un diagonale bellissimo infilo il portiere avversario: goooooalll!

Urlo come un pazzo, il pubblico, una massa umana indistinta, impazzisce anch'esso, tutti gioiscono con me. Lo stadio è investito da un boato, corro verso i tifosi, tutta gente che non conosco, eppure metto il naso a un centimetro da loro, dietro il vetro o l'inferriata che delimita gli spalti: delirio."

Per questo non esultare dopo il goal mi sembra un gesto molto forzato, quasi una violenza a se stessi, forse è anche un po' snob, oltre che poco bello.

Se non esulti per rispettare la tifoseria avversaria, i tuoi tifosi possono pensare che tu non rispetti loro.

E poi il calcio è un gioco, tutti sanno che un giorno tu calciatore sei in un posto e sei mesi dopo vesti già una casacca diversa.

Si fa subito, insulsamente, a dire: "traditore! mercenario!" nell'atteggiamento sempre urlato dello stadio, che non è altro che l'erede dell'anfiteatro dei gladiatori.

E' crudele e spietato lo stadio, ma anche generoso e innamorato, è luogo di istinti tendenti talvolta all'estasi, talvolta al lato oscuro di noi stessi.

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