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martedì 8 marzo 2016

Ecco perchè le banche falliscono


Bugie e fallimenti

In tema di banche, i nostri Presidenti del Consiglio prendono dei granchi colossali e continuano a mietere figuracce.

Silvio Berlusconi, per molte volte, dopo la crisi del 2008, affermò: 

"Il nostro sistema economico ha retto l'urto della crisi meglio di tanti altri paesi e le nostre banche sono solide".

Poco tempo dopo vennero fuori tutti i misfatti, col relativo default, del Monte dei Paschi di Siena, salvato, con i soldi dei contribuenti, dal governo Monti".

Dopo il crollo delle ormai note quattro banche di piccole-medie dimensioni (Banca Etruria, Cassa di Risparmio di Chieti, Banca delle Marche e Cassa di Risparmio di Ferrara), Matteo Renzi tranquillizzò gli animi: 

"Il nostro sistema bancario è solidissimo e la Germania se lo sogna, uno scenario come il nostro".

Dopo un mese circa da questa scellerata sortita, i media hanno centrato l'attenzione sulla crisi di un istituto piuttosto importante, giudicato l'undicesimo gruppo bancario più ricco d'Italia.

Stiamo parlando della Banca Popolare di Vicenza, detentrice di 682 quote della Banca d'Italia che la rendono il trentaduesimo azionista per rilevanza.

La Banca d'Italia a sua volta è azionista della Bce.

L'istituto veneto dunque, partecipa ai dividendi derivanti dai prestiti operati dalla Banca Centrale Europea.

Una banale verità

Il motivo per cui le banche falliscono è molto semplice. Ancora oggi esse traggono la maggior parte del loro profitto dai prestiti. In un periodo di ormai cronicizzata recessione come quello attuale, le società di credito italiane sono indotte a prestare pochi soldi perché solo una minoranza della popolazione può dare sufficienti garanzie. 

E' chiaro però che così facendo guadagnano meno.

Nello scenario economico attuale, anche quando gli istituti di credito prestano liquidità ad aziende che sembrano solide, ricevono da queste operazioni un notevole danno.

Tali attività produttive, infatti, falliscono a volte inaspettatamente, lasciando il creditore in difficoltà.

Il boomerang delle banche e quello delle aziende

Il paradosso è nel fatto che proprio la politica economica voluta dalle banche si ritorce contro di esse. Nel sistema produttivo si è registrato un fenomeno analogo. 

Dagli anni '90 i governi e le elite economiche trovarono delle soluzioni per desalarizzare i dipendenti, come, ad esempio, i contratti flessibili. I sindacati in tale fragente mostrarono poca combattività, mentre dieci o venti anni prima davano vita ad imponenti proteste per questioni di minore importanza.

Le aziende, pensando di massimizzare i profitti risparmiando sul costo del lavoro, sono state colpite da un boomerang. Se le imprese pagano meno milioni di lavoratori, infatti, questi ultimi consumano meno e comprano meno i servizi e i prodotti che esse vendono.

Gli industriali dunque mettono in moto un meccanismo pensato per guadagnare di più ma che li danneggia.

Allo stesso modo, se le banche operano, tramite la complicità dei governi che ne sono il braccio, politiche recessive, fatte di tagli e tasse, i soldi di tali cespiti vanno a loro con vari stratagemmi e giustificazioni.

Gli enti creditizi pensano così di guadagnarci, ma a quel punto le masse non hanno più risorse reddituali per garantire i prestiti e le perdite risultano ben maggiori.


Un caro saluto a Giorgio Ariani


Hai portato un po' di colore nelle nostre vite, soprattutto nelle giornate noiose d'inverno, oppure quando dopo una lunga giornata storta, ci capitava di vedere le repliche dei tuoi film nelle ore notturne, sulle reti locali.

Mi rimasero impresse quelle scene del tuo Pierino in cui Renzo Montagnani veniva, "deus ex machina", a darti una mano nelle situazioni critiche di bambino monello. A te brillavano gli occhi, pieni di semplicità e di amore e gli dicevi: "I' tti vorrei come bbabbo". In quel momento avevi una luce particolare e sembravi un bambino per davvero.

Hai doppiato Ollio, hai scritto e interpretato commedie, hai partecipato ai programmi dei grandi e dei bambini.

Da oggi avremo un sorriso in meno.

Grazie...

e arrivederci!

domenica 6 marzo 2016

Il nostro autorazzismo e quel sorriso che fa la differenza

Ogni volta che mi reco in un paese straniero e dico che sono italiano, la prima reazione della maggior parte degli interlocutori è questa: il viso si illumina ed esprimono parole di sincera ammirazione per il mio paese. Ne vengono presi ad esempio lo stile di vita, le bellezze naturali ed artistiche, il cibo, a volte anche altri fattori.

Qui in Italia lo sport nazionale è invece di commiserarci e lamentarci di tutto. Come dei bambini viziati, nulla ci va bene. Qualche anno fa, precisamente tra il gennaio e il febbraio del 2012, alcune località dove la neve c'è raramente o per pochissimi giorni all'anno, furono imbiancate per un paio di settimane. 

L'organizzazione per ovviare alle emergenze fu buona, le strade vennero tenute in buono stato, la neve fu spalata, il sale per scioglierla fu sparso e tutti gli organi volti alla protezione della popolazione si mossero.

Nonostante ciò, molti italiani, come mammolette isteriche, si indignarono dando la colpa a questa o a quella istituzione. I rappresentanti dei comuni e delle regioni non godono di troppa popolarità, ma non sanno ancora organizzare la danza della neve; 

non controllano i fenomeni naturali nè hanno il numero con prefisso del paradiso; non possono mettere dunque una buona parola su ciò che è naturale e quello che è soprannaturale.

In Italia impera la retorica che ci vuole, soprattutto per alcuni esponenti della stampa, dei cialtroni che non sanno fare niente bene.

Nella mia famiglia si è sempre lavorato e conosco molte persone valide che cercano di fare qualcosa di utile per dare un senso alla propria esistenza.

Abbiamo tanti motivi di vanto.

Forse ci scordiamo come si vive ancora oggi in diversi paesi disagiati del mondo. Abbiamo rimosso la cognizione che c'è stata una generazione che ha visto due guerre mondiali stravolgere la sua vita.

Non tutto è meglio altrove e l'erba del vicino non è sempre più verde.

Andate a controllare la qualità delle abitazioni medie in alcuni paesi anglosassoni. Paragonate il nostro cibo con tanti altri piatti stranieri.

Senza scomodare il genio dei nostri artisti e scienziati del Rinascimento, oltre che di altre epoche più o meno lontane, vi chiedo: chi ha inventato il moplen? Per chi non lo sapesse, il moplen è una plastica che viene utilizzata per moltissimi utensili e oggetti di varia natura.

Chi ha costruito la Ferrari, la Lamborghini, quale paese ha dominato per decenni nell'industria della moda?

Quante declinazioni del nostro artigianato e della nostra abilità manifatturiera vengono ammirate, copiate ed esportate in tutto il mondo?

Eppure giornalisti come Marco Travaglio si lasciano scappare in tv frasi come: "senza l'Europa saremmo le m...e che siamo sempre stati".

Non sono a favore del nazionalismo e nemmeno del patriottismo. Quando si dà per scontato che tutto ciò che viene fatto nel tuo territorio, nella tua regione e nel tuo paesello è il meglio del meglio, si diventa parte di un provincialismo odioso che non fa bene.

In tal caso si evita il confronto e si rifiuta, osservando altri modelli di pensiero, di azione e di vita, il confronto che ci stimola a cercare dei miglioramenti.

Invoco piuttosto l'equilibrio e il senso di autostima che stiamo perdendo. Lamentarsi della nostra classe dirigente è giusto, ma è anche inutile. Bisogna concentrarsi su azioni concrete, anche molto piccole, da applicare nel nostro piccolo spazio quotidiano. Dare l'esempio vale più di mille sermoni.

Un brutto vizio che noi Italiani abbiamo è quello di criticare gli altri e assegnare le colpe a determinate categorie di persone in cui raramente rientriamo noi stessi.

Spesso riteniamo di essere migliori degli altri, di votare meglio di altri e di non avere atteggiamenti da correggere.

Quand'anche ammettessimo di avere la nostra parte di responsabilità come singoli individui, a cosa servirebbe, se poi non ci muovessimo? 

Non rimane che renderci impermeabili alle notizie che ci fanno indignare ogni giorno. Viviamo con il sorriso e recuperiamo la spensieratezza dell'Italia pre-industriale. 

Se vogliamo il cambiamento, iniziamo a cambiare noi stessi. Parliamo meno e prendiamo l'iniziativa e sentiremo la positività animare le nostre braccia.

sabato 5 marzo 2016

Perchè il debito pubblico non è un problema e perchè non va ripianato

Il compito di un giornalista è quello di cercare la verità e di divulgarla. Purtroppo troppi addetti ai lavori si riempiono le labbra e la penna di cose che non comprendono. Si tratta di concetti non difficili da capire, ma bisogna informarsi. Stendiamo un velo pietoso poi sulla voluta disinformazione che alcune forze politiche ci propinano da vent'anni in temi di economia, spesso per giustificare l'aumento di tasse e il taglio di servizi pubblici.

Cos'è il debito pubblico?

Innanzitutto spieghiamo cos'è il debito pubblico. Wikipedia ne dà una definizione attendibile:

"Il debito pubblico in economia è il debito dello Stato nei confronti di altri soggetti economici nazionali o esteri quali individui, imprese, banche o stati esteri, che hanno sottoscritto un credito allo Stato nell'acquisizione di obbligazioni o titoli di stato (in Italia BOT, BTP, CCT, CTZ e altri) destinati a coprire il fabbisogno di cassa statale, nonché l'eventuale deficit pubblico nel bilancio dello Stato".

Lo stato italiano, come tutti i maggiori stati industriali affermatisi nel dopoguerra (Usa, Germania, Francia, Uk, Giappone) ha speso molti soldi per infrastrutture, salari pubblici, servizi. Ha messo in circolo moneta e ricchezza per mettere in moto l'economia privata. Dagli stipendi pubblici traggono beneficio milioni di attività industriali e commerciali, perchè le persone impiegate dallo stato impiegano il proprio denaro in consumi di vario tipo.


Dire dunque, come molti liberisti del settore privato, che la spesa pubblica è una cosa che li danneggia è falso.


Il debito pubblico non è mai stato un problema

La stragrande maggioranza del debito pubblico è, in Italia come ormai dappertutto, detenuto dalle banche.
Avete mai sentito in televisione banchieri o dirigenti di banca affermare: rivogliamo i nostri soldi, il debito pubblico ci danneggia!

Quando l'Italia raddoppiò il suo debito pubblico tra il 1981 e il 2000, non si sentì un solo banchiere lamentarsi, anzi, banche e aziende furono per molto tempo soddisfatte perchè l'economia andava bene.

Perchè non si ribellano? Semplicemente perchè non c'è mai stato un problema relativo all'ammontare del debito pubblico.

Perchè il debito pubblico non va ripagato, punto per punto

1 Le banche non prestano allo stato soldi propri: premono un bottone e ordinano il denaro alla banca centrale, che glieli presta a tassi generalmente ridicoli (0,25, 0,50, 0,75%)

Concedono poi tali somme allo stato a tassi molto più elevati, traendone un guadagno.

2 L'interesse sui titoli di stato, su cui le banche guadagnano, è proporzionale al rischio che esse corrono. Più alto è il rischio, più alti sono i profitti. Se il credito non viene restituito, fa parte del gioco. Quando gli istituti di credito realizzano anche il 20% sui titoli di stato, stanno al gioco. Deve stare a loro bene, quindi, anche quando l'investimento va male.

3 Il debito è stato creato, in tempi moderni, in maniera artificiale. Non c'era bisogno di chiedere tutti quei soldi in prestito alle banche, perchè lo stato aveva il potere di creare denaro.

Quando la Banca d'Italia è stata separata dal Ministero del Tesoro e poi privatizzata, i suoi dirigenti decisero di non comprare i titoli di stato che rimanevano invenduti.

Lo stato dovette dunque alzare a dismisura gli interessi per renderli appetibili. Fu così che in venti anni, dall'81 in poi, il debito pubblico esplose, per una spesa di interessi bancari dunque, non per gli sprechi di cui tanto si parla, che sono una piccolissima parte del debito.

4 Si può continuare a fare molto debito pubblico in più, senza che questo sia un problema.

Se c'è una banca centrale vera (non la Bce dunque) che garantisce la solvibilità del debito, esso non è un problema.

5 E' un dato di fatto: Il Regno Unito ha il debito pubblico da otto secoli e nessuna catastrofe l'ha colpito. Discorsi simili si possono fare per gli  Stati Uniti e il Giappone, ad esempio. Quest'ultimo ha un debito del 250% del Pil e il Fondo monetario internazionale dice che è tutto ok, perchè ha una banca centrale che garantisce il debito.

6 Le banche, giocando ai derivati e con altri strumenti di finanza creativa, hanno creato una massa monetaria di 54 volte superiore al Pil mondiale. Cosa volete che sia un debito di 1,2, 2 o 3 volte il Pil? Si può continuare a fare debito pubblico senza conseguenze.

7 L'Italia ha degli assets praticamente infiniti per garantire il debito, quand'anche ce ne fosse bisogno: proprietà pubbliche, infrastrutture terreni et cetera et cetera.


Inoltre parlare di rapporto debito pubblico\Pil non ha senso: il primo è uno stock maturato nell'arco di decenni, se non secoli. Il secondo è un flusso che misura il valore monetario di beni e servizi nell'arco di un solo anno.

Del resto, quando andate in banca per un prestito, essa non vi chiede quanti beni e servizi avete prodotto, ma il rendiconto del vostro reddito e delle vostre proprietà.


8 Le banche traggono già il loro profitto dagli interessi sul debito pubblico, altrimenti sarebbero già fallite tutte. Non pagare il debito vuol dire infliggere ad esse un mancato guadagno, non una perdita.

9 Bisogna essere rigorosamente corretti nei confronti delle banche, che, senza un processo democratico, si sono impossessate della sovranità monetaria dei popoli e creano truffe, frodi fiscali e molto altro ai danni dei risparmiatori?

Considerazioni finali

Ci avete mai fatto caso? I paesi dell'est europeo, soprattutto appena dopo essere usciti dal controllo sovietico, detenevano un debito pubblico bassissimo ed avevano un benessere enormemente inferiore all'occidente, che spesso aveva debiti pubblici molto più alti. 

Ancora oggi persiste una situazione simile.

Tale esempio rende l'idea di come il debito è stato funzionale alla crescita economica degli stati. 

Pubblicato su: www.lopinionista.it