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giovedì 17 febbraio 2011

Quando il sud era più fiorente del Nord


Nella storia precedente l'unità d'Italia sembra ribaltarsi il binomio Sud povero-Nord ricco L'Unità d'Italia fu voluta da politici, monarchi e intellettuali del Nord.
E' curioso pensare oggi che proprio nel Nord una consistente minoranza voglia la secessione.
Emerge comunque il quadro di una Napoli capitale di una nazione potente, che dialogava alla pari con Londra e Parigi. Sembra altresì che la spedizione dei mille fu finanziata da capitali Inglesi; questi ultimi vedevano nella riunione dell'Italia sotto il casato Savoia una doppia opportunità: la prima era quella di distruggere lo stato della chiesa, sovrapponendogli uno stato laico e più vicino al protestantesimo; la seconda era quella di creare una nuova unità statuale di chiara impronta liberale, fatto che combaciava coi loro interessi.

Borboni, l'età dorata che restò una promessa
di Giuseppe Galasso.

I Borboni regnarono nel Mezzogiorno dal 1734 al 1860, ma la traccia di memorie e nostalgie che essi hanno lasciato nel Napoletano è stata ben più profonda che in Sicilia.

Non è strano. Sicilia e Napoli erano due Regni indipendenti. La loro unione personale sotto Carlo di Borbone nel 1734 non fu mai accettata dai siciliani, ostili a ogni dipendenza dalla lontana e non amata Napoli. Molto peggio fu con la «legge fondamentale » del dicembre 1816. Con essa Ferdinando, figlio e successore di Carlo, riunì Sicilia e Napoli nell’unico e inedito Regno delle Due Sicilie. Regno che non ebbe mai un’effettiva vita unitaria. I siciliani vi riluttarono sempre; vi si ribellarono nel 1820-1821 e nel 1848; e fu in Sicilia che nacque il moto fatale e finale del 1860.

Carlo fu accolto a Napoli con un incredibile entusiasmo. Con lui, dopo due secoli, si tornava a essere un paese indipendente e, di fatto, cominciò proprio allora quella che si può definire «l’ora più bella» nella storia del Regno, segnando una stagione di grandi riforme, fra le più notevoli nell’Italia del tempo. A sua volta, il pensiero napoletano, con Giannone, Genovesi, Galiani, Filangieri conseguì un vero lustro europeo. Né la vitalità culturale si nutrì solo di riformismo. Fu un moto più ampio: basti ricordare gli scavi di Pompei e il ruolo assunto da Napoli con la costruzione nel 1737 del teatro di San Carlo, vero tempio della musica europea. E poi Carlo, cui toccò gran parte dell’eredità farnesiana, fece venire qui le stupende opere d’arte antica e moderna che tuttora formano il pregio maggiore dei musei napoletani.

Partito Carlo per cingere a Madrid la corona spagnola, sotto il figlio Ferdinando la fase riformatrice proseguì. Cultura e governo presero un ritmo ancor più intenso. Furono anni assai belli, malgrado evenienze terribili, come la grande carestia-epidemia del 1764. Il governo di Napoli fu pure tra i primi d’Europa a espellere i Gesuiti, cercando poi di utilizzarne al meglio il patrimonio, e diede una buona prova in occasione del terribile sisma calabrese del 1783.

Pareva che il Regno, pur faticosamente, avesse trovato una sua strada. Napoli ebbe allora una grande fama europea, con la sua vita culturale, musicale e artistica, col fascino della nuova Reggia di Caserta, e con altri suoi «numeri» di forte richiamo. Ma tutto ciò non trovò una canalizzazione adeguata ai problemi del Regno. Coi limiti del governo, emersero resistenze insuperabili a un vero rinnovamento, che non era, in fondo, nella logica di quel regime. A fine secolo, il Regno non era più quello di un secolo prima, ma era ancora lontano da un vero processo di sviluppo moderno. Era ormai chiaro che, se, certo, i Borboni miravano a far grande il loro Regno, in realtà era Napoli a fare grandi i suoi Borboni.

Poi la Rivoluzione francese segnò una svolta. Si ruppe la linea delle riforme e si giunse ai noti eventi del 1799 e alle forche di piazza Mercato, che distrussero una parte notevole della migliore intellettualità e classe civile del Regno, anche se i limiti dei «giacobini» e «patrioti» di quel tragico anno furono evidenti già ai loro compagni sopravvissuti e prosecutori.

Tuttavia, cacciati i Borboni da Napoleone, sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, tra il 1806 e il 1815, l’essenziale del programma «giacobino» fu realizzato, sicché gli uomini del ’99, sconfitti sul piano politico, vinsero, però, sul piano storico. E perciò è del tutto infondato il vecchio ritornello, per cui la storia napoletana finisce nel 1799. Essa proseguì vigorosa. Le riforme dei due sovrani francesi rimasero; e, anche dopo, un dinamismo napoletano non mancò.

Non vennero, però, mai meno le carenze del sistema. A parte il dualismo fra Napoli e Palermo, la dinastia non corrispose più alle grandi tendenze ideologiche e politiche dell’Europa del tempo, delle quali il Mezzogiorno partecipò appieno. A base del Regno istituito nel 1816 rimase, più che altro, la lealtà dinastica, più a Napoli, come si è detto, che in Sicilia. Era fatale che tra la linea della dinastia e le giovani generazioni e le classi colte si aprisse un’amplissima sfasatura, che agevolò la diffusione degli ideali di unità italiana anche fra i moderati del Mezzogiorno.

Gli aspetti positivi del regime borbonico dopo il 1815 non potevano colmare quella sfasatura. Le fallite rivoluzioni del 1820-21 e del 1848 la aggravarono. La monarchia ristabilì il suo potere, ma a un prezzo politico grave, che coprì anche le insufficienze e gli errori dei liberali napoletani in quelle due occasioni, e rese inevitabile l’orientamento italiano della parte politica e intellettuale più attiva del Paese dopo il 1848.

Sotto Ferdinando II il Regno ebbe un buon assetto tributario, finanziario e monetario. Si tentò l’avvio di varie manifatture, si realizzò tra l’altro il grande stabilimento ferroviario di Pietrarsa, un «gigante» nel suo genere in Italia, e si mirò a costruire varie, benché insufficienti infrastrutture per lo sviluppo. Insomma, ci fu un’attiva opera di governo, e il pensiero economico napoletano si pose con nuovo vigore i problemi del Regno, anche se lo sviluppo continuò a restare lontano.

A Napoli si guardò perciò con interesse per alcuni anni anche da parte dell’opinione pubblica italiana. Tutto si dissolse, però, dopo il 1848. In Europa il prestigio della dinastia cadde gravemente. Il disagio siciliano portò a preparare la spedizione di Garibaldi. Nel Napoletano la fiducia nei Borboni si attenuò molto, e peggio fu quando nel 1859 all’esperto e coriaceo Ferdinando II subentrò il giovane figlio Francesco II.

Nel 1860 il crollo dello Stato fu impressionante. Ne uscì con onore solo l’esercito (a torto deriso come «esercito di Francischiello»). Conquista piemontese? Affermarlo significa non capire ciò che allora accadde a Napoli, ma che — punto decisivo! — non fu per nulla un imprevisto e repentino mutamento di scena. Al contrario, fu l’epilogo di un lungo e sofferto dramma, in atto da oltre mezzo secolo.

Giuseppe Galasso
Corrieredellasera.it

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