Da qualche tempo si è diffuso il modo di dire "aperitivo cenato". Non so se sia un fenomeno locale o nazionale, la costante è che si tratta di uno strafalcione grammaticale di primo livello.
L'intento sarebbe quello di indicare un aperitivo abbondante, tanto da saziare quasi quanto una cena.
Quando lo sento però è una fitta al cuore: aperitivo.. cenato.. un aperitivo che viene cenato...
Cenare non ha la forma passiva! L'aperitivo non viene cenato! Tu ceni il formaggio? Semmai ceni "con" il formaggio.
Il bello è che questa dicitura compare scritta addirittura sulle insegne fisse dei bar.
In un locale addirittura c'era un cartello fuori, che parlava dell'aperitivo cenato. Poi, più in basso, c'era scritto che nello stesso posto qualcuno insegna l'inglese.
Prima dovrebbe imparare l'italiano, però.
domenica 27 febbraio 2011
martedì 22 febbraio 2011
Vuoi offrirmi un lavoro? Contattami
Valuto proposte di lavoro nei settori dell'editoria e del giornalismo. Ho anche esperienza nel settore del turismo e dello sviluppo commerciale. Chi lo volesse, può contattarmi alla mail andrearusso1979@hotmail.it
La strategia di Antonio Ricci: dal confronto allo scontro.
Antonio Ricci è un autore televisivo geniale: con "Drive In" prima e con "Striscia la notizia" poi ha fatto man bassa, per decenni, di ascolti e di sponsors.
Quelle poche volte in cui però incontra un rivale che lo batte diventa aggressivo, e passa all'attacco.
Quando c'è Sanremo, che toglie a "Striscia" molti spettatori, Striscia risponde con servizi che screditano il Festival dei fiori.
Si sceglie una doppia via: da una parte si resta nella scia parlando del Festival, dall'altra si cerca di scalfirne l'autorevolezza per tornare vincenti.
Quando ci fu invece il boom di "Affari Tuoi" alla Rai con Bonolis, il programma di Mediaset fece venir fuori un presunto scandalo e storie di irregolarità su cui, dopo un botta e risposta tra le due aziende tutto fu messo in archivio.
Nessuno è perfetto: Ricci è brillantemente un po' manager, un po' artista ma vuol vincere sia con le buone, che con le cattive.
Non ci sono eroi nel calcio
Spesso si cade nel malinteso che il presidente/proprietario di una società calcistica che tira fuori i soldi e fa la squadra forte sia un tifoso vero e un salvatore della patria. La verità è che chi ricopre tale ruolo è un imprenditore e non andrebbe mai contro il suo interesse prettamente economico.
Anche quando apparentemente va in perdita con la squadra di calcio, l'industriale ha altri tipi di vantaggio, più o meno indiretti.
In un modo o nell'altro, ha sempre qualcosa in cambio.
E' un dato di fatto che col football club non si guadagni più e che sia solo una grana, difficile da gestire e dai costi esorbitanti. E' un'azienda in cui gli operai guadagnano sempre e il datore di lavoro può benissimo andarci in perdita.
Un Del Piero, con il suo guadagno annuale tra i 9 e gli 11 milioni di euro,(stipendio + sponsors), potrebbe comprare tranquillamente una squadra di serie A di bassa classifica.
Ma allora perchè gli industriali si imbarcano in questa avventura?
E' presto detto: perchè nel posto in cui si insediano gli viene concesso di costruire palazzine e alberghi, oppure supermercati e attività economiche di vario tipo.
C'è chi, figlio forse di una cultura un po' più trasparente, è venuto dalla Germania e ha proposto uno scambio alla luce del sole: io ti restauro lo stadio di proprietà comunale gratis, e tu, sindaco, mi fai mettere sotto lo stadio un ipermercato.
L'operazione farebbe sorridere: immaginatevi i tifosi incazzati che dopo aver perso una partita in casa spaccano le vetrine del supermercato, magari riescono anche ad entrarvi e mettono tutto sottosopra.
Ma quand'anche questo scambio fosse fattibile, chi si metterebbe contro gli imprenditori locali? Quale politico lascerebbe fare affari a uno straniero a dispetto di chi gli paga la campagna elettorale?
Per questo motivo, non si parli più di salvatori della patria: il calcio nonostante tanti misfatti rimane un gioco bellissimo, ma va visto senza mistificazioni.
Anche quando apparentemente va in perdita con la squadra di calcio, l'industriale ha altri tipi di vantaggio, più o meno indiretti.
In un modo o nell'altro, ha sempre qualcosa in cambio.
E' un dato di fatto che col football club non si guadagni più e che sia solo una grana, difficile da gestire e dai costi esorbitanti. E' un'azienda in cui gli operai guadagnano sempre e il datore di lavoro può benissimo andarci in perdita.
Un Del Piero, con il suo guadagno annuale tra i 9 e gli 11 milioni di euro,(stipendio + sponsors), potrebbe comprare tranquillamente una squadra di serie A di bassa classifica.
Ma allora perchè gli industriali si imbarcano in questa avventura?
E' presto detto: perchè nel posto in cui si insediano gli viene concesso di costruire palazzine e alberghi, oppure supermercati e attività economiche di vario tipo.
C'è chi, figlio forse di una cultura un po' più trasparente, è venuto dalla Germania e ha proposto uno scambio alla luce del sole: io ti restauro lo stadio di proprietà comunale gratis, e tu, sindaco, mi fai mettere sotto lo stadio un ipermercato.
L'operazione farebbe sorridere: immaginatevi i tifosi incazzati che dopo aver perso una partita in casa spaccano le vetrine del supermercato, magari riescono anche ad entrarvi e mettono tutto sottosopra.
Ma quand'anche questo scambio fosse fattibile, chi si metterebbe contro gli imprenditori locali? Quale politico lascerebbe fare affari a uno straniero a dispetto di chi gli paga la campagna elettorale?
Per questo motivo, non si parli più di salvatori della patria: il calcio nonostante tanti misfatti rimane un gioco bellissimo, ma va visto senza mistificazioni.
domenica 20 febbraio 2011
Sanremo: finalmente un po' di armonia.
Non sono un grande estimatore del Festival di Sanremo: molte cose sono artificiali, per non dire poco credibili, e la musica italiana è rappresentata solo in minima parte.
Quest'anno però c'è da registrare l'armonia insolita che ha regnato sul palco dell'Ariston e dietro le quinte. I genovesi Luca e Paolo, brillanti e forse ispirati dall'atmosfera per loro quasi casalinga, hanno dispensato satira sia contro la destra che con la sinistra e non come avviene di solito.
Tutti i protagonisti, da Gianni Morandi a Belen Rodriguez ed Elisabetta Canalis fino ai cantanti in gara, hanno fatto una bella figura.
Morandi è riuscito a tenere i nervi di tutti a posto, ha gestito bene un evento su cui gravano ogni anno tanti, troppi interessi economici per poter sbagliare, le polemiche dei giornalisti e degli organizzatori sono state limitate al minimo.
Intelligente è stata la scelta di abrogare il "dopofestival", colmo di dibattiti inutili. Anche in sala stampa ha regnato l'allegria.
Alla fine sono stati tutti concordi nell'assegnare la vittoria a Roberto Vecchioni e Raphael Gualazzi, ed è stata una svolta qualitativa dopo le discutibili preferenze date nel recente passato a Valerio Scanu e Marco Carta.
Gli orchestrali, al contrario dell'anno scorso, quando gettarono in aria gli spartiti per protesta, hanno lanciato fiori all'indirizzo del "professore" all'annuncio della sua vittoria.
Personalmente ho ritenuto particolarmente toccanti due episodi: la serata dedicata ai 150 anni dell'Unità d'Italia, dove c'è stato uno sfavillio di artisti che hanno onorato, riproponendole, canzoni che sono un nostro patrimonio culturale.
Altrettanto hanno fatto Gianni Morandi e Massimo Ranieri ieri sera, proponendo un medley di loro pezzi molto belli, a cui hanno aggiunto "Nel blu dipinto di blu" di Domenico Modugno.
Il festival della canzone italiana viene proposto da emittenti di tutto il mondo, e l'Italia ha fatto bella mostra di sè. E' la ricetta Morandi: un po' più di orgoglio e di armonia ci fanno bene. Finalmente abbiamo assistito una volta tanto ad una festa, come la kermesse ligure in teoria dovrebbe sempre
essere. Teniamone conto in futuro, e magari anche in altre occasioni che non riguardano la musica.
Quest'anno però c'è da registrare l'armonia insolita che ha regnato sul palco dell'Ariston e dietro le quinte. I genovesi Luca e Paolo, brillanti e forse ispirati dall'atmosfera per loro quasi casalinga, hanno dispensato satira sia contro la destra che con la sinistra e non come avviene di solito.
Tutti i protagonisti, da Gianni Morandi a Belen Rodriguez ed Elisabetta Canalis fino ai cantanti in gara, hanno fatto una bella figura.
Morandi è riuscito a tenere i nervi di tutti a posto, ha gestito bene un evento su cui gravano ogni anno tanti, troppi interessi economici per poter sbagliare, le polemiche dei giornalisti e degli organizzatori sono state limitate al minimo.
Intelligente è stata la scelta di abrogare il "dopofestival", colmo di dibattiti inutili. Anche in sala stampa ha regnato l'allegria.
Alla fine sono stati tutti concordi nell'assegnare la vittoria a Roberto Vecchioni e Raphael Gualazzi, ed è stata una svolta qualitativa dopo le discutibili preferenze date nel recente passato a Valerio Scanu e Marco Carta.
Gli orchestrali, al contrario dell'anno scorso, quando gettarono in aria gli spartiti per protesta, hanno lanciato fiori all'indirizzo del "professore" all'annuncio della sua vittoria.
Personalmente ho ritenuto particolarmente toccanti due episodi: la serata dedicata ai 150 anni dell'Unità d'Italia, dove c'è stato uno sfavillio di artisti che hanno onorato, riproponendole, canzoni che sono un nostro patrimonio culturale.
Altrettanto hanno fatto Gianni Morandi e Massimo Ranieri ieri sera, proponendo un medley di loro pezzi molto belli, a cui hanno aggiunto "Nel blu dipinto di blu" di Domenico Modugno.
Il festival della canzone italiana viene proposto da emittenti di tutto il mondo, e l'Italia ha fatto bella mostra di sè. E' la ricetta Morandi: un po' più di orgoglio e di armonia ci fanno bene. Finalmente abbiamo assistito una volta tanto ad una festa, come la kermesse ligure in teoria dovrebbe sempre
essere. Teniamone conto in futuro, e magari anche in altre occasioni che non riguardano la musica.
Da "Rimini Rimini" a "Pescara Pescara"
(Sopra: il "Ponte del mare")
E' con molto orgoglio che rilevo come la mia città non perda occasione per rinnovarsi e rilanciarsi dal punto di vista turistico e commerciale, ma non solo.
L'attitudine a costruire, ristrutturare, rimettere palazzi e strade a nuovo, se da un lato genera sospetti sul binomio politici-costruttori dall'altro ha portato benefici indubbi a una città che vive di turismo come Pescara, e che ha fatto dell'accoglienza la sua bandiera.
In genere non mancano visitatori d'estate e d'inverno, attratti dal mare, dalla spiaggia, dall'arredo urbano moderno e sempre curato. In città non ci sono chissà quali attrattive monumentali o storiche, pur essendo Pescara una città molto antica e risalente ai tempi dei romani.
Sarebbe ingeneroso anche però sminuire ciò che c'è e non è poco. Le sue chiese non sono molto antiche, ma alcune di esse un valore artistico ce l'hanno, eccome. Proviamo a tornare ogni tanto nella cattedrale di San Cetteo, ristrutturata all'epoca del "Ventennio", da cui ha mutuato lo stile architettonico. Oppure alle Chiese dello Spirito Santo, del Sacro Cuore e di Sant'Antonio: curatissime, con riferimenti posticci talora al Romanico, talora al bizantino e al gotico, ma di sicuro impatto. Non disprezzerei inoltre la Nave di Cascella, Il Teatro munumento D'Annunzio con la relativa Stele, l' "Aurum", la città vecchia con la casa del già citato "Vate" , e non da ultimi il Porto turistico e il nuovo Ponte del Mare, opera di moderna ed estrosa ingegneria. Contigue al posto turistico stanno sorgendo delle strutture ricettive, tra cui un albergo di 22 piani.
Pescara è supportata da infrastrutture importanti: il raccordo autostradale dell'Asse attrezzato, il porto, l'aeroporto. Anche in tutto il circondario esistono numerose strutture ricettive, come i "Grandi Alberghi" di Montesilvano, piccoli grattacieli che svolgono un ruolo molto strategico per l'economia del posto.
E' a un'ora di macchina da strutture sciistiche, è circondata da posti di interesse storico, è a solo 200 km da Roma.
E' la città più grande della sua regione, 123 000 abitanti circa su 1.300 000.
I margini di crescita sono ancora alti.
Proporrei un cinepanettone comico o un film estivo, sul modello di Rimini Rimini e tanti altri films comici, che fanno grandi incassi, sono molto seguiti. Un'iniziativa del genere, che potrebbe essere sponsorizzata dagli enti locali, porterebbe grandi benefici in termini di visibilità e di turismo.
Se ci riflettiamo bene, in Rimini Rimini e in Rimini Rimini - Un anno dopo non si vede quasi nulla della città: a parte la spiaggia investita dal sole estivo, qualche locale famoso e la parlata romagnola di alcuni attori, la capitale del divertimento non fa sfoggio di sè. Nonostante questa manchevolezza da parte degli autori, essi hanno rinverdito ulteriormente i fasti della riviera romagnola.
D'accordo, non si tratta di films di alto pregio artistico, ma sarebbe un'occasione come un'altra da sfruttare per valorizzare il nostro territorio e si andrebbe ad aggiungere alle felici pellicole "La guerra degli Antò" e "Liberi".
L'attitudine a costruire, ristrutturare, rimettere palazzi e strade a nuovo, se da un lato genera sospetti sul binomio politici-costruttori dall'altro ha portato benefici indubbi a una città che vive di turismo come Pescara, e che ha fatto dell'accoglienza la sua bandiera.
In genere non mancano visitatori d'estate e d'inverno, attratti dal mare, dalla spiaggia, dall'arredo urbano moderno e sempre curato. In città non ci sono chissà quali attrattive monumentali o storiche, pur essendo Pescara una città molto antica e risalente ai tempi dei romani.
Sarebbe ingeneroso anche però sminuire ciò che c'è e non è poco. Le sue chiese non sono molto antiche, ma alcune di esse un valore artistico ce l'hanno, eccome. Proviamo a tornare ogni tanto nella cattedrale di San Cetteo, ristrutturata all'epoca del "Ventennio", da cui ha mutuato lo stile architettonico. Oppure alle Chiese dello Spirito Santo, del Sacro Cuore e di Sant'Antonio: curatissime, con riferimenti posticci talora al Romanico, talora al bizantino e al gotico, ma di sicuro impatto. Non disprezzerei inoltre la Nave di Cascella, Il Teatro munumento D'Annunzio con la relativa Stele, l' "Aurum", la città vecchia con la casa del già citato "Vate" , e non da ultimi il Porto turistico e il nuovo Ponte del Mare, opera di moderna ed estrosa ingegneria. Contigue al posto turistico stanno sorgendo delle strutture ricettive, tra cui un albergo di 22 piani.
Pescara è supportata da infrastrutture importanti: il raccordo autostradale dell'Asse attrezzato, il porto, l'aeroporto. Anche in tutto il circondario esistono numerose strutture ricettive, come i "Grandi Alberghi" di Montesilvano, piccoli grattacieli che svolgono un ruolo molto strategico per l'economia del posto.
E' a un'ora di macchina da strutture sciistiche, è circondata da posti di interesse storico, è a solo 200 km da Roma.
E' la città più grande della sua regione, 123 000 abitanti circa su 1.300 000.
I margini di crescita sono ancora alti.
Proporrei un cinepanettone comico o un film estivo, sul modello di Rimini Rimini e tanti altri films comici, che fanno grandi incassi, sono molto seguiti. Un'iniziativa del genere, che potrebbe essere sponsorizzata dagli enti locali, porterebbe grandi benefici in termini di visibilità e di turismo.
Se ci riflettiamo bene, in Rimini Rimini e in Rimini Rimini - Un anno dopo non si vede quasi nulla della città: a parte la spiaggia investita dal sole estivo, qualche locale famoso e la parlata romagnola di alcuni attori, la capitale del divertimento non fa sfoggio di sè. Nonostante questa manchevolezza da parte degli autori, essi hanno rinverdito ulteriormente i fasti della riviera romagnola.
D'accordo, non si tratta di films di alto pregio artistico, ma sarebbe un'occasione come un'altra da sfruttare per valorizzare il nostro territorio e si andrebbe ad aggiungere alle felici pellicole "La guerra degli Antò" e "Liberi".
Link: Ascoltate la bella colonna sonora di "Rimini Rimini" dei Righeira
venerdì 18 febbraio 2011
Rompi il tuo computer ed esci da casa
Internet ha realizzato in parte gli scenari di fantascienza più mostruosi. Si pensava che la macchina un giorno sarebbe diventata così intelligente da sviluppare un senso critico e ribellarsi all'uomo.
Se ciò non è stato ancora compiuto dai robot, il risultato è stato centrato in pieno dalla tv, dai cellulari, dai computer, dagli ipad, ipod, iphone e chi più ne ha più ne metta.
Internet ci illude di avvicinarci agli altri, in realtà erge delle barricate, e spesso preferiamo comunicare dietro ad un computer che di persona.
Si perde troppo tempo in chat, attività di svago via web, e ne risentono gli occhi e la mente. Inoltre ci si impigrisce notevolmente, e la vita sociale ne risente.
Io sto troppo davanti ad internet e per me si è sviluppata una sorta di dipendenza.
E' ora di darci un taglio.
La mia vita è peggiorata da quando ho il collegamento internet, è giunto il momento di riappropriarmi dei miei spazi ed essere io padrone della tecnologia, e non lei padrona di me.
E' una riflessione imprescindibile da cui l'insignificante Andrea Russo, e più in generale l'uomo e la donna moderni non possono esimersi.
Questo blog ha già più di tre anni: mi ha dato tante soddisfazioni, nonchè la possibilità di esprimere delle potenzialità.
Spenderò meno ore su di esso, ma il tempo impiegato verrà ottimizzato, per cui continuerò a scrivere.
Se ciò non è stato ancora compiuto dai robot, il risultato è stato centrato in pieno dalla tv, dai cellulari, dai computer, dagli ipad, ipod, iphone e chi più ne ha più ne metta.
Internet ci illude di avvicinarci agli altri, in realtà erge delle barricate, e spesso preferiamo comunicare dietro ad un computer che di persona.
Si perde troppo tempo in chat, attività di svago via web, e ne risentono gli occhi e la mente. Inoltre ci si impigrisce notevolmente, e la vita sociale ne risente.
Io sto troppo davanti ad internet e per me si è sviluppata una sorta di dipendenza.
E' ora di darci un taglio.
La mia vita è peggiorata da quando ho il collegamento internet, è giunto il momento di riappropriarmi dei miei spazi ed essere io padrone della tecnologia, e non lei padrona di me.
E' una riflessione imprescindibile da cui l'insignificante Andrea Russo, e più in generale l'uomo e la donna moderni non possono esimersi.
Questo blog ha già più di tre anni: mi ha dato tante soddisfazioni, nonchè la possibilità di esprimere delle potenzialità.
Spenderò meno ore su di esso, ma il tempo impiegato verrà ottimizzato, per cui continuerò a scrivere.
giovedì 17 febbraio 2011
Quando il sud era più fiorente del Nord
Nella storia precedente l'unità d'Italia sembra ribaltarsi il binomio Sud povero-Nord ricco L'Unità d'Italia fu voluta da politici, monarchi e intellettuali del Nord.
E' curioso pensare oggi che proprio nel Nord una consistente minoranza voglia la secessione.
Emerge comunque il quadro di una Napoli capitale di una nazione potente, che dialogava alla pari con Londra e Parigi. Sembra altresì che la spedizione dei mille fu finanziata da capitali Inglesi; questi ultimi vedevano nella riunione dell'Italia sotto il casato Savoia una doppia opportunità: la prima era quella di distruggere lo stato della chiesa, sovrapponendogli uno stato laico e più vicino al protestantesimo; la seconda era quella di creare una nuova unità statuale di chiara impronta liberale, fatto che combaciava coi loro interessi.
Borboni, l'età dorata che restò una promessa
di Giuseppe Galasso.
I Borboni regnarono nel Mezzogiorno dal 1734 al 1860, ma la traccia di memorie e nostalgie che essi hanno lasciato nel Napoletano è stata ben più profonda che in Sicilia.
Non è strano. Sicilia e Napoli erano due Regni indipendenti. La loro unione personale sotto Carlo di Borbone nel 1734 non fu mai accettata dai siciliani, ostili a ogni dipendenza dalla lontana e non amata Napoli. Molto peggio fu con la «legge fondamentale » del dicembre 1816. Con essa Ferdinando, figlio e successore di Carlo, riunì Sicilia e Napoli nell’unico e inedito Regno delle Due Sicilie. Regno che non ebbe mai un’effettiva vita unitaria. I siciliani vi riluttarono sempre; vi si ribellarono nel 1820-1821 e nel 1848; e fu in Sicilia che nacque il moto fatale e finale del 1860.
Carlo fu accolto a Napoli con un incredibile entusiasmo. Con lui, dopo due secoli, si tornava a essere un paese indipendente e, di fatto, cominciò proprio allora quella che si può definire «l’ora più bella» nella storia del Regno, segnando una stagione di grandi riforme, fra le più notevoli nell’Italia del tempo. A sua volta, il pensiero napoletano, con Giannone, Genovesi, Galiani, Filangieri conseguì un vero lustro europeo. Né la vitalità culturale si nutrì solo di riformismo. Fu un moto più ampio: basti ricordare gli scavi di Pompei e il ruolo assunto da Napoli con la costruzione nel 1737 del teatro di San Carlo, vero tempio della musica europea. E poi Carlo, cui toccò gran parte dell’eredità farnesiana, fece venire qui le stupende opere d’arte antica e moderna che tuttora formano il pregio maggiore dei musei napoletani.
Partito Carlo per cingere a Madrid la corona spagnola, sotto il figlio Ferdinando la fase riformatrice proseguì. Cultura e governo presero un ritmo ancor più intenso. Furono anni assai belli, malgrado evenienze terribili, come la grande carestia-epidemia del 1764. Il governo di Napoli fu pure tra i primi d’Europa a espellere i Gesuiti, cercando poi di utilizzarne al meglio il patrimonio, e diede una buona prova in occasione del terribile sisma calabrese del 1783.
Pareva che il Regno, pur faticosamente, avesse trovato una sua strada. Napoli ebbe allora una grande fama europea, con la sua vita culturale, musicale e artistica, col fascino della nuova Reggia di Caserta, e con altri suoi «numeri» di forte richiamo. Ma tutto ciò non trovò una canalizzazione adeguata ai problemi del Regno. Coi limiti del governo, emersero resistenze insuperabili a un vero rinnovamento, che non era, in fondo, nella logica di quel regime. A fine secolo, il Regno non era più quello di un secolo prima, ma era ancora lontano da un vero processo di sviluppo moderno. Era ormai chiaro che, se, certo, i Borboni miravano a far grande il loro Regno, in realtà era Napoli a fare grandi i suoi Borboni.
Poi la Rivoluzione francese segnò una svolta. Si ruppe la linea delle riforme e si giunse ai noti eventi del 1799 e alle forche di piazza Mercato, che distrussero una parte notevole della migliore intellettualità e classe civile del Regno, anche se i limiti dei «giacobini» e «patrioti» di quel tragico anno furono evidenti già ai loro compagni sopravvissuti e prosecutori.
Tuttavia, cacciati i Borboni da Napoleone, sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, tra il 1806 e il 1815, l’essenziale del programma «giacobino» fu realizzato, sicché gli uomini del ’99, sconfitti sul piano politico, vinsero, però, sul piano storico. E perciò è del tutto infondato il vecchio ritornello, per cui la storia napoletana finisce nel 1799. Essa proseguì vigorosa. Le riforme dei due sovrani francesi rimasero; e, anche dopo, un dinamismo napoletano non mancò.
Non vennero, però, mai meno le carenze del sistema. A parte il dualismo fra Napoli e Palermo, la dinastia non corrispose più alle grandi tendenze ideologiche e politiche dell’Europa del tempo, delle quali il Mezzogiorno partecipò appieno. A base del Regno istituito nel 1816 rimase, più che altro, la lealtà dinastica, più a Napoli, come si è detto, che in Sicilia. Era fatale che tra la linea della dinastia e le giovani generazioni e le classi colte si aprisse un’amplissima sfasatura, che agevolò la diffusione degli ideali di unità italiana anche fra i moderati del Mezzogiorno.
Gli aspetti positivi del regime borbonico dopo il 1815 non potevano colmare quella sfasatura. Le fallite rivoluzioni del 1820-21 e del 1848 la aggravarono. La monarchia ristabilì il suo potere, ma a un prezzo politico grave, che coprì anche le insufficienze e gli errori dei liberali napoletani in quelle due occasioni, e rese inevitabile l’orientamento italiano della parte politica e intellettuale più attiva del Paese dopo il 1848.
Sotto Ferdinando II il Regno ebbe un buon assetto tributario, finanziario e monetario. Si tentò l’avvio di varie manifatture, si realizzò tra l’altro il grande stabilimento ferroviario di Pietrarsa, un «gigante» nel suo genere in Italia, e si mirò a costruire varie, benché insufficienti infrastrutture per lo sviluppo. Insomma, ci fu un’attiva opera di governo, e il pensiero economico napoletano si pose con nuovo vigore i problemi del Regno, anche se lo sviluppo continuò a restare lontano.
A Napoli si guardò perciò con interesse per alcuni anni anche da parte dell’opinione pubblica italiana. Tutto si dissolse, però, dopo il 1848. In Europa il prestigio della dinastia cadde gravemente. Il disagio siciliano portò a preparare la spedizione di Garibaldi. Nel Napoletano la fiducia nei Borboni si attenuò molto, e peggio fu quando nel 1859 all’esperto e coriaceo Ferdinando II subentrò il giovane figlio Francesco II.
Nel 1860 il crollo dello Stato fu impressionante. Ne uscì con onore solo l’esercito (a torto deriso come «esercito di Francischiello»). Conquista piemontese? Affermarlo significa non capire ciò che allora accadde a Napoli, ma che — punto decisivo! — non fu per nulla un imprevisto e repentino mutamento di scena. Al contrario, fu l’epilogo di un lungo e sofferto dramma, in atto da oltre mezzo secolo.
Giuseppe Galasso
Corrieredellasera.it
Dal libro di Pino Aprile: "Terroni"
Ecco un interessante stralcio proveniente dal libro di Pino Aprile "Terroni". Secondo Aprile ed altri, Garibaldi non fece la fortuna del sud, ma il suo degrado. Il Regno delle due sicilie era una potenza internazionale, molto più del Nord Italia, e vantava primati importanti.
Napoli all'epoca dell'Unità d'Italia era una città più ricca e prestigiosa di Roma, più popolosa, con un passato e un presente culturale molto vivace. Fu lì che nacque una delle prime università d'Italia, ad opera del Normanno Federico II. Sempre lì nacque la prima ferrovia d'Italia, la famosa Napoli-Portici, sia pure di valore quasi simbolico, visti i 7 e poco più km di lunghezza del percorso.
******
In seguito all’unificazione territoriale dell’Italia nel 1860, la storia del risorgimento fu scritta ed adeguata in funzione dei nuovi padroni, i Savoia.
Il primo atto fu quello di giustificare l’invasione – avvenuta senza un motivo e senza dichiarazione di guerra – del Regno delle Due Sicilie, uno Stato in pace con tutti.
A tal fine, fu inventata e propagandata la più grande menzogna risorgimentale: quella del degrado e della miseria del Sud povero ed arretrato, a differenza del Nord, in particolare il Piemonte, ricco ed evoluto.
A questo punto, una domanda sorge spontanea: «Ma Vittorio Emanuele II e Cavour furono allora dei grandissimi fessi ad invadere e conquistare il Regno delle Due Sicilie? Furono degli autolesionisti, perché, così facendo, vennero a legarsi una simile “palla al piede” e ad accollarsi tutti nostri guai?»
Invece non fu così. Costoro non erano né fessi, né autolesionisti, ma dei grandissimi furbacchioni!
Al momento dell’unità d’Italia, la ricchezza dello Stato meridionale, costituita dai depositi aurei esistenti presso le banche delle Due Sicilie, era di poco inferiore a mezzo miliardo di lire-oro (443,2 milioni) ed in quantità doppia rispetto a quella di tutti gli altri Stati italiani messi assieme (per un totale di 668,4 milioni). Questi dati sono relativi al Primo Censimento Generale del neonato Regno d’Italia (Cfr. Francesco Saverio Nitti “Scienza delle Finanze”, Ed. Pierro, 1903, pag. 292).
A ciò si aggiungeva la solidità della stessa moneta circolante, tutta in metallo pregiato (niente carta) che, per il suo valore intrinseco, non si era mai svalutata (quindi, l’inflazione, era un fenomeno sconosciuto!) nei 126 anni in cui regnò la dinastia borbonica.
Un’altra verità storica venne sapientemente occultata dalla storiografia risorgimentalista, e cioè che, subito dopo l’unità, fu combattuta una cruenta guerra civile, con centinaia di migliaia di morti (1 milione di meridionali restarono uccisi), passata alla storia come lotta al brigantaggio.
I Savoia hanno fatto credere di aver “liberato” il Sud dalle angherie e dalla fame. Ma dopo oltre 10 anni di dura repressione, iniziò un massiccio esodo di popolo dal Sud, ove prima erano sconosciute la disoccupazione e l’emigrazione (dall’unità ai nostri giorni, sono emigrati non meno di 26 milioni di meridionali).
In realtà, la Sardegna dei Savoia era ben più depressa della Sicilia dei Borbone e Napoli era ben più civile e moderna di Torino.
Tralasciando di menzionare i numerosissimi primati (in Italia e nel mondo: se ne contano più di cinquanta!), ricordiamo che, nel 1856, alla “Mostra dell’industria di Parigi”, il Regno delle Due Sicilie fu premiato quale Terza Nazione Industriale al mondo. Nessun altro Stato italiano fu menzionato (Cfr. Vittorio Gleijeses “Storia di Napoli”, Ed. Ciano, pag. 852).
In campo tributario, l’erario napoletano era il più prosperoso d’Europa, quantunque a fronte di un sistema impositivo fiscale giudicato il più mite del continente; durante il regno dei Borbone, infatti, la pressione fiscale non venne mai accresciuta. Questo sistema tributario era regolamentato da tre sole leggi e poneva il massimo rispetto per la proprietà e l’iniziativa privata, agevolando in ogni maniera la ricchezza di ognuno e, quindi, quella generale. L’unica imposta “diretta” esistente era la fondiaria (10%), mentre imposte “indirette” erano quella sulle dogane, sui tabacchi, sul sale, sulle polveri da sparo e sulle carte da gioco (in sostanza, tutte imposte di monopolio); poi quella sul registro, quella sulla lotteria e quella sulle poste.
Tra il 1815 ed il 1860, le aliquote di queste imposte non furono mai aumentate, né furono istituite nuove tasse. Tuttavia, le entrate erariali erano sempre in espansione.
Come le ricchezze finanziarie del Regno della Due Sicilie erano più consistenti di quelle piemontesi, così il debito pubblico era più modesto; infatti, esso consisteva in 59,03 lire pro-capite per i meridionali, contro le 261,86 lire pro-capite per i sudditi del Regno di Piemonte (Cfr. Giacomo Savarese, “Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860”, Tipografia di Gaetano Cardamone, Napoli, 1862).
Per questo e non per altro, i piemontesi occuparono il Regno o davvero qualcuno crede ancora alla bella favola risorgimentale? Nella drammatica situazione socio-economica in cui versiamo oggi, non l’avrebbero mai fatto: si sarebbero legati una bella palla al piede! Ma a Vittorio Emanuele II ed a Cavour – che fessi non erano (e Garibaldi fu solo un utile strumento nelle loro mani) – faceva molto gola un bel Regno, ricco ed opulento, una vera e propria California Europea; Napoli fu vista con invidia e cupidigia, in quanto appariva come una gallina dalle uova d’oro, da catturare e spogliare.
Ma c’è di più. La politica fiscale perseguita dallo Stato unitario fu un caso di vero e proprio drenaggio di capitali che, dal Sud, andarono al Nord.
Infatti, sentiamo cosa dice addirittura un convinto unitarista meridionale, come Giustino Fortunato, nella lettera del 2 settembre 1899 a Pasquale Villari: «L’unità d’Italia… è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura maggiore che nelle meridionali».
Pertanto, la storia “ufficiale” andrebbe riscritta basandosi sui documenti, ma i nostri libri di scuola e la tanta letteratura risorgimentalista, questo non l’hanno fatto e non lo fanno ancora: raccontano tante balle. Le balle utili a chi invase un pacifico, tranquillo Regno, conquistò, massacrò ed ebbe poi bisogno di costruirsi una verginità di fronte alle future generazioni.
Sempre dal Censimento Generale del Regno d’Italia del 1861 (dati ufficiali anche questi!) risulta che, nelle “Due Sicilie”, erano attivamente occupate 6.983.826 persone, pari al 76,10% della popolazione. Vale a dire che il Regno godeva decisamente di una invidiabile situazione economica, impensabile ed inarrivabile per noi meridionali di oggi, in tre parole: la piena occupazione.
Questo risultato fu raggiunto con la grande politica di investimenti e risanamento voluta dal re Ferdinando II di Borbone.
L’emigrazione dalle nostre terre era un fenomeno assolutamente sconosciuto; dopo l’unità d’Italia assumerà toni da “Esodo Biblico”.
In conclusione, eravamo lo Stato più ricco d’Italia, con il più elevato livello di occupazione, il minor numero di poveri, la maggiore densità di popolazione, il maggior numero di immigrati (dal Nord Italia e dall’estero: pensate l’ironia!) e tutti occupati; la prima normativa della storia sull’immigrazione fu la legge emanata il 17 dicembre 1817 dal re Ferdinando I di Borbone. Insomma, eravamo uno dei tre Stati più potenti d’Europa, che a quei tempi significava del mondo, mentre chi ci invase ed occupò era lo Stato più povero, sull’orlo della bancarotta (ce lo riferisce il deputato piemontese Pier Carlo Boggio), talmente indebitato che i Savoia dovettero cedere (rectius: vendere) la loro terra d’origine, cioè la Savoia, alla Francia.
Incredibile? No è la verità, a noi tutti abilmente occultata, ma soltanto la verità.
Il tracollo del Sud nasce dopo l’unità d’Italia ed aumenta in maniera esponenziale fino ai giorni nostri, facendo fuggire i ragazzi da questa loro terra.
Prendiamone atto una volta per tutte e, dopo aver fatto studiare loro tante sciocchezze, cominciamo a raccontare ai nostri figli la verità. La Storia deve essere maestra di vita e non di falsità! Ingannare i nostri ragazzi (come lo siamo stati noi adulti quando eravamo studenti) con queste colossali fandonie è altamente diseducativo.
Purtroppo, anche Sergio Rizzo e Gianantonio Stella (come lo scrivente) hanno studiato la storia d’Italia adulterata e manipolata che si legge sui libri scolastici scritti dagli storici di regime (sabaudo), per avvalorare il punto di vista dei vincitori; tuttavia, non è mai troppo tardi per documentarsi su qualche buon testo più obiettivo. Ripartiamo allora dalla Storia d’Italia, ma da quella “vera”, cioè quella basata su documenti inoppugnabili, non sulle favolette inventate di sana pianta e raccontate fino alla noia, per ben 150 anni, da storiografi prezzolati e venduti al vincitore.
Consiglieri, pertanto, oltre ai testi già menzionati, di leggere anche alcune pagine di Gramsci sulla questione meridionale (può stupire che il padre del comunismo italiano avesse una visione controcorrente degli eventi post-unitari, da lui denunciati come messa a ferro e a fuoco delle contrade meridionali e soprusi sulle masse contadine: Gramsci prima e più di altri aveva capito che l’unificazione era stata un’operazione di colonizzazione violenta del Meridione), nonché la recentissima opera di Pino Aprile, “Terroni” Ed. Piemme, 2010
Napoli all'epoca dell'Unità d'Italia era una città più ricca e prestigiosa di Roma, più popolosa, con un passato e un presente culturale molto vivace. Fu lì che nacque una delle prime università d'Italia, ad opera del Normanno Federico II. Sempre lì nacque la prima ferrovia d'Italia, la famosa Napoli-Portici, sia pure di valore quasi simbolico, visti i 7 e poco più km di lunghezza del percorso.
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In seguito all’unificazione territoriale dell’Italia nel 1860, la storia del risorgimento fu scritta ed adeguata in funzione dei nuovi padroni, i Savoia.
Il primo atto fu quello di giustificare l’invasione – avvenuta senza un motivo e senza dichiarazione di guerra – del Regno delle Due Sicilie, uno Stato in pace con tutti.
A tal fine, fu inventata e propagandata la più grande menzogna risorgimentale: quella del degrado e della miseria del Sud povero ed arretrato, a differenza del Nord, in particolare il Piemonte, ricco ed evoluto.
A questo punto, una domanda sorge spontanea: «Ma Vittorio Emanuele II e Cavour furono allora dei grandissimi fessi ad invadere e conquistare il Regno delle Due Sicilie? Furono degli autolesionisti, perché, così facendo, vennero a legarsi una simile “palla al piede” e ad accollarsi tutti nostri guai?»
Invece non fu così. Costoro non erano né fessi, né autolesionisti, ma dei grandissimi furbacchioni!
Al momento dell’unità d’Italia, la ricchezza dello Stato meridionale, costituita dai depositi aurei esistenti presso le banche delle Due Sicilie, era di poco inferiore a mezzo miliardo di lire-oro (443,2 milioni) ed in quantità doppia rispetto a quella di tutti gli altri Stati italiani messi assieme (per un totale di 668,4 milioni). Questi dati sono relativi al Primo Censimento Generale del neonato Regno d’Italia (Cfr. Francesco Saverio Nitti “Scienza delle Finanze”, Ed. Pierro, 1903, pag. 292).
A ciò si aggiungeva la solidità della stessa moneta circolante, tutta in metallo pregiato (niente carta) che, per il suo valore intrinseco, non si era mai svalutata (quindi, l’inflazione, era un fenomeno sconosciuto!) nei 126 anni in cui regnò la dinastia borbonica.
Un’altra verità storica venne sapientemente occultata dalla storiografia risorgimentalista, e cioè che, subito dopo l’unità, fu combattuta una cruenta guerra civile, con centinaia di migliaia di morti (1 milione di meridionali restarono uccisi), passata alla storia come lotta al brigantaggio.
I Savoia hanno fatto credere di aver “liberato” il Sud dalle angherie e dalla fame. Ma dopo oltre 10 anni di dura repressione, iniziò un massiccio esodo di popolo dal Sud, ove prima erano sconosciute la disoccupazione e l’emigrazione (dall’unità ai nostri giorni, sono emigrati non meno di 26 milioni di meridionali).
In realtà, la Sardegna dei Savoia era ben più depressa della Sicilia dei Borbone e Napoli era ben più civile e moderna di Torino.
Tralasciando di menzionare i numerosissimi primati (in Italia e nel mondo: se ne contano più di cinquanta!), ricordiamo che, nel 1856, alla “Mostra dell’industria di Parigi”, il Regno delle Due Sicilie fu premiato quale Terza Nazione Industriale al mondo. Nessun altro Stato italiano fu menzionato (Cfr. Vittorio Gleijeses “Storia di Napoli”, Ed. Ciano, pag. 852).
In campo tributario, l’erario napoletano era il più prosperoso d’Europa, quantunque a fronte di un sistema impositivo fiscale giudicato il più mite del continente; durante il regno dei Borbone, infatti, la pressione fiscale non venne mai accresciuta. Questo sistema tributario era regolamentato da tre sole leggi e poneva il massimo rispetto per la proprietà e l’iniziativa privata, agevolando in ogni maniera la ricchezza di ognuno e, quindi, quella generale. L’unica imposta “diretta” esistente era la fondiaria (10%), mentre imposte “indirette” erano quella sulle dogane, sui tabacchi, sul sale, sulle polveri da sparo e sulle carte da gioco (in sostanza, tutte imposte di monopolio); poi quella sul registro, quella sulla lotteria e quella sulle poste.
Tra il 1815 ed il 1860, le aliquote di queste imposte non furono mai aumentate, né furono istituite nuove tasse. Tuttavia, le entrate erariali erano sempre in espansione.
Come le ricchezze finanziarie del Regno della Due Sicilie erano più consistenti di quelle piemontesi, così il debito pubblico era più modesto; infatti, esso consisteva in 59,03 lire pro-capite per i meridionali, contro le 261,86 lire pro-capite per i sudditi del Regno di Piemonte (Cfr. Giacomo Savarese, “Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860”, Tipografia di Gaetano Cardamone, Napoli, 1862).
Per questo e non per altro, i piemontesi occuparono il Regno o davvero qualcuno crede ancora alla bella favola risorgimentale? Nella drammatica situazione socio-economica in cui versiamo oggi, non l’avrebbero mai fatto: si sarebbero legati una bella palla al piede! Ma a Vittorio Emanuele II ed a Cavour – che fessi non erano (e Garibaldi fu solo un utile strumento nelle loro mani) – faceva molto gola un bel Regno, ricco ed opulento, una vera e propria California Europea; Napoli fu vista con invidia e cupidigia, in quanto appariva come una gallina dalle uova d’oro, da catturare e spogliare.
Ma c’è di più. La politica fiscale perseguita dallo Stato unitario fu un caso di vero e proprio drenaggio di capitali che, dal Sud, andarono al Nord.
Infatti, sentiamo cosa dice addirittura un convinto unitarista meridionale, come Giustino Fortunato, nella lettera del 2 settembre 1899 a Pasquale Villari: «L’unità d’Italia… è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura maggiore che nelle meridionali».
Pertanto, la storia “ufficiale” andrebbe riscritta basandosi sui documenti, ma i nostri libri di scuola e la tanta letteratura risorgimentalista, questo non l’hanno fatto e non lo fanno ancora: raccontano tante balle. Le balle utili a chi invase un pacifico, tranquillo Regno, conquistò, massacrò ed ebbe poi bisogno di costruirsi una verginità di fronte alle future generazioni.
Sempre dal Censimento Generale del Regno d’Italia del 1861 (dati ufficiali anche questi!) risulta che, nelle “Due Sicilie”, erano attivamente occupate 6.983.826 persone, pari al 76,10% della popolazione. Vale a dire che il Regno godeva decisamente di una invidiabile situazione economica, impensabile ed inarrivabile per noi meridionali di oggi, in tre parole: la piena occupazione.
Questo risultato fu raggiunto con la grande politica di investimenti e risanamento voluta dal re Ferdinando II di Borbone.
L’emigrazione dalle nostre terre era un fenomeno assolutamente sconosciuto; dopo l’unità d’Italia assumerà toni da “Esodo Biblico”.
In conclusione, eravamo lo Stato più ricco d’Italia, con il più elevato livello di occupazione, il minor numero di poveri, la maggiore densità di popolazione, il maggior numero di immigrati (dal Nord Italia e dall’estero: pensate l’ironia!) e tutti occupati; la prima normativa della storia sull’immigrazione fu la legge emanata il 17 dicembre 1817 dal re Ferdinando I di Borbone. Insomma, eravamo uno dei tre Stati più potenti d’Europa, che a quei tempi significava del mondo, mentre chi ci invase ed occupò era lo Stato più povero, sull’orlo della bancarotta (ce lo riferisce il deputato piemontese Pier Carlo Boggio), talmente indebitato che i Savoia dovettero cedere (rectius: vendere) la loro terra d’origine, cioè la Savoia, alla Francia.
Incredibile? No è la verità, a noi tutti abilmente occultata, ma soltanto la verità.
Il tracollo del Sud nasce dopo l’unità d’Italia ed aumenta in maniera esponenziale fino ai giorni nostri, facendo fuggire i ragazzi da questa loro terra.
Prendiamone atto una volta per tutte e, dopo aver fatto studiare loro tante sciocchezze, cominciamo a raccontare ai nostri figli la verità. La Storia deve essere maestra di vita e non di falsità! Ingannare i nostri ragazzi (come lo siamo stati noi adulti quando eravamo studenti) con queste colossali fandonie è altamente diseducativo.
Purtroppo, anche Sergio Rizzo e Gianantonio Stella (come lo scrivente) hanno studiato la storia d’Italia adulterata e manipolata che si legge sui libri scolastici scritti dagli storici di regime (sabaudo), per avvalorare il punto di vista dei vincitori; tuttavia, non è mai troppo tardi per documentarsi su qualche buon testo più obiettivo. Ripartiamo allora dalla Storia d’Italia, ma da quella “vera”, cioè quella basata su documenti inoppugnabili, non sulle favolette inventate di sana pianta e raccontate fino alla noia, per ben 150 anni, da storiografi prezzolati e venduti al vincitore.
Consiglieri, pertanto, oltre ai testi già menzionati, di leggere anche alcune pagine di Gramsci sulla questione meridionale (può stupire che il padre del comunismo italiano avesse una visione controcorrente degli eventi post-unitari, da lui denunciati come messa a ferro e a fuoco delle contrade meridionali e soprusi sulle masse contadine: Gramsci prima e più di altri aveva capito che l’unificazione era stata un’operazione di colonizzazione violenta del Meridione), nonché la recentissima opera di Pino Aprile, “Terroni” Ed. Piemme, 2010
Garibaldi: eroe o criminale?
Ci sono numerose fonti storiche secondo le quali Garibaldi si sarebbe macchiato, in più occasioni, di crimini efferati che nulla avevano in comune con l'idealismo e l'amore patrio.
Riporto, non entrando nel merito, un interessante articolo, più i link relativi ad altri interventi simili.
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Il Comitato dei Garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, presieduto dal presidente emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nella riunione del 25 gennaio scorso ha deciso di coinvolgere le istituzioni pubbliche e la società civile in vista delle celebrazioni che si svolgeranno il prossimo anno. La TV si è fatta promotrice di un’azione di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla storia del Risorgimento e, durante un recente TG1, ha presentato un servizio sulle dure condizioni in cui vivevano i prigionieri politici italiani nelle carceri austriache dello Spielberg. Non ha però fornito alcuna informazione sulla deportazione di migliaia di soldati borbonici, ordinata da Vittorio Emanuele II nel 1860, un anno prima della proclamazione del Regno d’Italia. I militari, colpevoli di essere rimasti fedeli al proprio re e alla propria patria, furono imprigionati nei campi di concentramento situati a Milano, Genova, ...
... Bergamo, Alessandria, San Maurizio Canadese, Fenestrelle e in altre località del Nord. In questi campi, prefigurazioni dei lager nazisti e dei gulag comunisti, furono fatti perire per fame e malattie migliaia di soldati meridionali, che preferirono morire piuttosto che abiurare il giuramento di fedeltà alla loro patria, il Regno delle Due Sicilie.
Particolarmente crudele era la sorte assegnata a coloro che venivano reclusi nel carcere di Fenestrelle, nel quale, a causa delle gelide condizioni climatiche, la vita non superava i tre mesi e i cadaveri, per non essere identificati, venivano disciolti nella calce viva.
I fatti sopra riportati non sono a conoscenza di gran parte del popolo italiano, poiché i manuali scolastici e i mass media presentano il Risorgimento come una nuova nascita dell’Italia sul piano culturale, politico e civile e pochi sanno, ad esempio, che la spedizione dei Mille del 1860 fu voluta e gestita da Cavour, mentre l’ideatore dell’impresa garibaldina fu Giuseppe La Farina, segretario della Società Nazionale, il partito cavouriano in Italia; fu lui a convincere Garibaldi, inizialmente esitante, a intraprendere la spedizione e a fornirgli le armi (1).
Inoltre, pochi sanno che i gloriosi “mille” in realtà era una formazione paramilitare, così descritta dallo stesso Garibaldi: “Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto” (2).
Garibaldi e la sua soldataglia terrorizzarono con la loro violenza le pacifiche popolazioni meridionali. La Farina, considerato da Garibaldi suo comandante , scrisse una serie di lettere a Cavour, denunciando i crimini compiuti dall'“eroe dei due mondi” e dai suoi seguaci (3).
Gli omicidi furono numerosi e commessi in modo brutale: “Io non debbo a lei celare che all’interno dell’isola gli ammazzamenti seguono in proporzioni spaventose; che nella stessa Palermo in due giorni quattro persone sono state fatte a brani; e che tutto è stato disordinato e messo sossopra con una insensatezza da oltrepassare ogni limite del credibile” (4).
Vennero arruolati con la forza ventimila bambini di età compresa tra gli otto e i quindici anni: “Si assoldano in Palermo bambini dagli 8 e i 15 anni e si dà loro tre tari al giorno!” (5).
ll denaro pubblico venne utilizzato in modo arbitrario: “Si manda al tesoro pubblico a prendere migliaia di ducati, senza né anco indicarne la destinazione!” 6). La magistratura fu sostituita da commissioni militari nell’esercizio dell’attività giudiziaria: “Si lascia tutta la Sicilia senza tribunali né civili, né penali, né commerciali, essendo stata congedata in massa tutta la magistratura! Si creano commissioni militari per giudicare di tutto e di tutti, come al tempo degli Unni” (7).
La Farina lamentò il degrado politico e civile, in cui era costretta a vivere la Sicilia, in alcune lettere scritte a vari conoscenti. Garibaldi era contrario all’azione del parlamento, della magistratura e della polizia: “Garibaldi dichiara pubblicamente che non vuole tribunali civili, perché i giudici e gli avvocati sono imbroglioni; che non vuole assemblea perché i deputati sono gente di penna e non di spada; che non vuole niuna forza di sicurezza pubblica, perché i cittadini debbono tutti armarsi e difendersi da loro” (8).
In Sicilia non esisteva più un governo civile: “Non abbiamo nulla che possa somigliarsi ad un governo civile: non vi sono tribunali, […] non ci è finanza, avendo tutto assorbito l’intendente militare; non v’è sicurezza, non volendo il dittatore né polizia, né guardia nazionale, non v’è amministrazione, essendo sciolte tutte le intendenze” (9).
Ladri e assassini governavano la Sicilia: “I bricconi più svergognati, gli usciti di galera per furti e ammazzamenti [vengono] compensati con impieghi e con gradi militari. La sventurata Sicilia è caduta in mano di una banda di Vandali” (10). La spedizione dei mille fu finanziata, oltre che dalla cavouriana Società Nazionale, dal governo britannico, che, come risulta dalla ricerca condotta da Di Vita, versò a Garibaldi tre milioni di franchi francesi, in piastre d’oro turche (11).
Lo scopo dell’ingente finanziamento era duplice: in primo luogo consisteva nell’aiutare Garibaldi a “colpire il Papato nel centro temporale, cioé l’Italia, agevolando la formazione di uno Stato protestante e laico” (12). Il secondo obiettivo era di carattere più immediato: consentire la corruzione dei generali e dei notabili borbonici: “È incontrovertibile che la marcia trionfale delle legioni garibaldine nel Sud venne immensamente agevolata dalla subitanea conversione di potenti dignitari borbonici alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa illuminazione sia stata catalizzata dall’oro” (13).
Come mai, ancora oggi, viene tramandata una visione oleografica e mitologica del Risorgimento e i fatti sopra riportati, che sono noti agli studiosi di storia, non sono portati a conoscenza dell’opinione pubblica? Per quale motivo chi rivela tali fatti viene accusato di revisionismo, come se revisionare la storia passata fosse una colpa e non invece una necessità insita nella ricerca storiografica?
La ricerca storiografica, come sosteneva De Felice, è, per sua natura, revisionista. Lo storico non può accettare passivamente i risultati a cui è pervenuta la storiografia precedente. Egli ha il compito di vagliare accuratamente la ricostruzione dei fatti e di reinterpretare questi ultimi alla luce della scoperta di nuova documentazione. Probabilmente questo metodo storiografico non piace all’intellighenzia di sinistra, che detiene il potere culturale in Italia, timorosa che, con la sua utilizzazione, vengano smascherate le analogie tra nazismo e comunismo, tra lager e gulag, e rivelati i crimini commessi dai partigiani rossi nel periodo successivo alla Liberazione nei confronti di migliaia di innocenti, tra i quali anche molti sacerdoti.
(1) Cfr. G. La Farina, Lettera a Pietro Sbarbato, 14 ottobre 1860.
(2) Cfr. A. Pellicciari, L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2000, p. 232.
(3) G. Garibaldi, Lettera a La Farina , 8 gennaio del 1859.
(4) G. La Farina, Lettera a Cavour, 28 giugno 1860.
(5) G. La Farina, Lettera a Cavour, 29 giugno 1860.
(6) Ibidem
(7) Ibidem
(8) G. La Farina, Lettera a Ausonio Franchi, 17 luglio 1860.
(9) G. La Farina, Lettera a Davide Morchio, 2 luglio 1860.
(10) G. La Farina, Lettera a Giuseppe Clementi, 19 luglio 1860.
(11) Cfr. G. Di Vita, Finanziamento della spedizione dei Mille, in Atti del Convegno “La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria”, organizzato dal Collegio dei Maestri Venerabili del Piemonte, Torino, settembre 1988.
(12) Ibidem
(13) Ibidem
Maurizio Moscone -
L'Ottimista - www.lottimista.com
Altri link:
www.repubblica.it/rubriche/camicie-rosse/2010/08/27/news/il_massacro_dimenticato_di_pontelandolfo_quando_i_bersaglieri_fucilarono_gli_innocenti-6543288/
www.pocobello.blogspot.com/2009/07/i-62-giorni-di-garibaldi-e-il.html
sabato 5 febbraio 2011
Atalanta Pescara 1-0. Vittoria meritata degli Orobici che si confermano squadra di vertice.
(In collaborazione con la testata Abruzzoblog.it. Nella foto: il Cileno Carlos Emilio Carmona ha propiziato oggi il goal dell'Atalanta)
E' un film già visto, quello di oggi all' "Atleti Azzurri d'Italia di Bergamo".Un'Atalanta più furba e con un tasso tecnico superiore batte un Pescara volitivo ma mai troppo pericoloso sotto porta.La gara inizia quasi a senso unico: dopo dieci minuti il portiere biancoazzurro Pinna carambola su Tiribocchi, sventando un grosso pericolo. La palla rimane vicino alla porta, ma i difensori "spazzano".
Gli Abruzzesi sono schierati da mister Di Francesco con un insolito 4-3-3 che ha Giacomelli, Sansovini e Bonanni come terminali offensivi.
Il Pescara attende i padroni di casa nella sua metà campo, per poi colpire in contropiede: da segnalare prima il tiro di Bonanni ad effetto col destro al 21' e poi quello da sinistra di Sansovini, che scarica un discreto sinistro al termine di un'azione in percussione.
Al 30' Barreto tira da lontano e Pinna respinge con un bell'intervento.
Nel secondo tempo i padroni di casa vanno in vantaggio, dopo un predominio nel possesso palla che li porta a produrre il maggior numero di azioni da goal.
Con furbizia, Carmona batte velocemente una punizione a centrocampo, lanciando lungo per Marilungo.
L'ex Sampdoriano approfitta dell'immobilità della difesa ospite e supera con un tiro da pochi metri l'incolpevole Pinna.
Siamo al 10' del secondo tempo.Seguono venti minuti in cui il Pescara cerca furiosamente il pareggio, e il subentrato Soddimo sorprende l'estremo nerazzurro Consigli, il quale devia ma non riesce a trattenere.Ma già a dieci minuti dalla fine gli ospiti non hanno più benzina, e i 6 minuti di recupero accordati dall'arbitro Emiliano Gallione a seguito di 6 sostituzioni e di un infortunio per crampi patito da Ferri non cambiano il corso degli eventi.
Si va tutti a casa e il Pescara, dopo il pari interno con la Triestina, la sconfitta di poche settimane fa a Siena più quella odierna, mostra ormai di non potere essere in grado di fare un salto di qualità.
Il neoacquisto Stefano Giacomelli ha offerto spunti interessanti ma è da rivedere per un giudizio più approfondito.
Andrea Russo
Il Pescara attende i padroni di casa nella sua metà campo, per poi colpire in contropiede: da segnalare prima il tiro di Bonanni ad effetto col destro al 21' e poi quello da sinistra di Sansovini, che scarica un discreto sinistro al termine di un'azione in percussione.
Al 30' Barreto tira da lontano e Pinna respinge con un bell'intervento.
Nel secondo tempo i padroni di casa vanno in vantaggio, dopo un predominio nel possesso palla che li porta a produrre il maggior numero di azioni da goal.
Con furbizia, Carmona batte velocemente una punizione a centrocampo, lanciando lungo per Marilungo.
L'ex Sampdoriano approfitta dell'immobilità della difesa ospite e supera con un tiro da pochi metri l'incolpevole Pinna.
Siamo al 10' del secondo tempo.Seguono venti minuti in cui il Pescara cerca furiosamente il pareggio, e il subentrato Soddimo sorprende l'estremo nerazzurro Consigli, il quale devia ma non riesce a trattenere.Ma già a dieci minuti dalla fine gli ospiti non hanno più benzina, e i 6 minuti di recupero accordati dall'arbitro Emiliano Gallione a seguito di 6 sostituzioni e di un infortunio per crampi patito da Ferri non cambiano il corso degli eventi.
Si va tutti a casa e il Pescara, dopo il pari interno con la Triestina, la sconfitta di poche settimane fa a Siena più quella odierna, mostra ormai di non potere essere in grado di fare un salto di qualità.
Il neoacquisto Stefano Giacomelli ha offerto spunti interessanti ma è da rivedere per un giudizio più approfondito.
Andrea Russo
venerdì 4 febbraio 2011
Il dibattito si accende in Abruzzo: "Acqua pubblica o privata?"
Quando si parla di privatizzazione dell'acqua è necessario fare delle giuste specificazioni.Innanzitutto c'è da dire che viene privatizzato il servizio di gestione delle acque, ovvero il diritto al loro sfruttamento e non la proprietà di tale bene, che rimane invece pubblica.
Secondo: non sono realistici accostamenti che spesso vengono effettuati tra ciò che è già avvenuto in alcune regioni italiane (o sta per accadere in altre) con quanto si registra in centroamerica o in africa;
si cita infatti il terzo mondo per indicare prevaricazioni di grandi società ai danni dei contadini, oppure la sottrazione di risorse idriche a favore di alcuni soggetti e a svantaggio di altri.
E' un dato di fatto, al di là degli steccati ideologici, che in Italia ci sia una regolamentazione sull'uso dei bacini idrici, nonchè enti preposti all'espletamento di opere pubbliche e controlli. Abruzzo social forum, Cgil, Rifondazione Comunista, wwf, Legambiente e alcune associazioni religiose hanno preso posizione contro la privatizzazione dell'acqua.
Renato De Nicola, di Abruzzo social forum, elenca i rischi di questo passaggio di consegne: "In Abruzzo la gestione dei bacini idrogeologici è ancora nelle mani dello stato, ma a seguito della legge Ronchi si sono poste le basi per l'ingresso delle multinazionali del settore anche in Abruzzo.
Gli Abruzzesi rischiano un aumento del costo delle bollette, un minore intervento infrastrutturale da parte dei nuovi gestori, il licenziamento di molti lavoratori del settore presenti nel territorio, infine una secretazione dei dati: sarà molto più difficile sapere quali lavori verranno eseguiti e a chi verranno affidati;
la trasparenza dunque verrà meno con il rischio di pericolosi abusi da parte degli operatori economici". Nella prossima tornata referendaria i cittadini potranno decidere se l'acqua dovrà restare nell'ambito della gestione statale o passare sotto il controllo dei privati".
C'è un altro aspetto però da affrontare: se vincesse la linea del no alla privatizzazione, si eviterebbe la speculazione dei privati, ma non quella dei politici.In Abruzzo tutti noi abbiamo assistito agli effetti dell'uso personalistico dell'Aca (consorzio acquedottistico abruzzese) e delle A.T.O. (Ambito Territoriale Ottimale) da parte dei politici.
Urge dunque anche un cambiamento degli assetti nella gestione pubblica dell'acqua.Su tale impellenza esprime a chiare lettere la sua opinione Domenico D'Aurora della Cgil: "E' giusto che qualora nel prossimo referendum vincesse la nostra idea di un'acqua "pubblica", non si può dimenticare che nella nostra regione vi sono state nomine di origine politica ai vertici di alcuni enti.
Inoltre abbiamo avuto un sovraimpiego di risorse umane: troppi dipendenti e troppi dirigenti in confronto alle reali esigenze del personale necessario".
Andrea Russo
Secondo: non sono realistici accostamenti che spesso vengono effettuati tra ciò che è già avvenuto in alcune regioni italiane (o sta per accadere in altre) con quanto si registra in centroamerica o in africa;
si cita infatti il terzo mondo per indicare prevaricazioni di grandi società ai danni dei contadini, oppure la sottrazione di risorse idriche a favore di alcuni soggetti e a svantaggio di altri.
E' un dato di fatto, al di là degli steccati ideologici, che in Italia ci sia una regolamentazione sull'uso dei bacini idrici, nonchè enti preposti all'espletamento di opere pubbliche e controlli. Abruzzo social forum, Cgil, Rifondazione Comunista, wwf, Legambiente e alcune associazioni religiose hanno preso posizione contro la privatizzazione dell'acqua.
Renato De Nicola, di Abruzzo social forum, elenca i rischi di questo passaggio di consegne: "In Abruzzo la gestione dei bacini idrogeologici è ancora nelle mani dello stato, ma a seguito della legge Ronchi si sono poste le basi per l'ingresso delle multinazionali del settore anche in Abruzzo.
Gli Abruzzesi rischiano un aumento del costo delle bollette, un minore intervento infrastrutturale da parte dei nuovi gestori, il licenziamento di molti lavoratori del settore presenti nel territorio, infine una secretazione dei dati: sarà molto più difficile sapere quali lavori verranno eseguiti e a chi verranno affidati;
la trasparenza dunque verrà meno con il rischio di pericolosi abusi da parte degli operatori economici". Nella prossima tornata referendaria i cittadini potranno decidere se l'acqua dovrà restare nell'ambito della gestione statale o passare sotto il controllo dei privati".
C'è un altro aspetto però da affrontare: se vincesse la linea del no alla privatizzazione, si eviterebbe la speculazione dei privati, ma non quella dei politici.In Abruzzo tutti noi abbiamo assistito agli effetti dell'uso personalistico dell'Aca (consorzio acquedottistico abruzzese) e delle A.T.O. (Ambito Territoriale Ottimale) da parte dei politici.
Urge dunque anche un cambiamento degli assetti nella gestione pubblica dell'acqua.Su tale impellenza esprime a chiare lettere la sua opinione Domenico D'Aurora della Cgil: "E' giusto che qualora nel prossimo referendum vincesse la nostra idea di un'acqua "pubblica", non si può dimenticare che nella nostra regione vi sono state nomine di origine politica ai vertici di alcuni enti.
Inoltre abbiamo avuto un sovraimpiego di risorse umane: troppi dipendenti e troppi dirigenti in confronto alle reali esigenze del personale necessario".
Andrea Russo
Novità tecnologiche a Pescara: cartelli stradali in codice da leggere con il telefonino
"Sono soddisfatto nell'annunciare che Pescara è il primo Comune d'Italia ad adottare una cartellonistica con il Qr code, detto anche "Quit response code" (traducibile come Codice di risposta rapida", ndr)".
Così si è espresso il vicesindaco Berardino Fiorilli su un'innovazione tecnologica che presto affollerà le strade del capoluogo adriatico. Cos'è il Qr code?
"Si tratta di un codice", prosegue Fiorilli, "che assomiglia a uno strano disegno, e che in realtà è decodificabile grazie al telefonino. Quasi tutti i moderni cellulari hanno gli strumenti per leggerlo. Basta scaricare un programma apposito e gratuito da Internet.
Ce ne sono diversi del genere, il più famoso è forse "Enigma". Tramite questi cartelli, saranno fruibili da parte del pubblico numerose informazioni che riguardano il posto in cui il cittadino si trova". I cartelloni sono stati elaborati dall'azienda italiana "Tools for business". Innovazioni avveneristiche e da terzo millennio attendono dunque Pescara.
In un ipotetico futuro dovremo rassegarci a non vedere più lapidi del tipo "Qui passò Giuseppe Garibaldi" o "In questa casa nacque Ennio Flaiano", ma un disegno che vagamente ricorda un labirinto, che potremo interpretare solo tramite un telefonino o un iPhone.
Andrea Russo
Così si è espresso il vicesindaco Berardino Fiorilli su un'innovazione tecnologica che presto affollerà le strade del capoluogo adriatico. Cos'è il Qr code?
"Si tratta di un codice", prosegue Fiorilli, "che assomiglia a uno strano disegno, e che in realtà è decodificabile grazie al telefonino. Quasi tutti i moderni cellulari hanno gli strumenti per leggerlo. Basta scaricare un programma apposito e gratuito da Internet.
Ce ne sono diversi del genere, il più famoso è forse "Enigma". Tramite questi cartelli, saranno fruibili da parte del pubblico numerose informazioni che riguardano il posto in cui il cittadino si trova". I cartelloni sono stati elaborati dall'azienda italiana "Tools for business". Innovazioni avveneristiche e da terzo millennio attendono dunque Pescara.
In un ipotetico futuro dovremo rassegarci a non vedere più lapidi del tipo "Qui passò Giuseppe Garibaldi" o "In questa casa nacque Ennio Flaiano", ma un disegno che vagamente ricorda un labirinto, che potremo interpretare solo tramite un telefonino o un iPhone.
Andrea Russo