domenica 30 giugno 2013

giovedì 27 giugno 2013

Zeropositivo

Gruppo sottovalutato e dimenticato troppo presto, viene spesso confuso con gli Zero Assoluto.




lunedì 24 giugno 2013

Eppur si qualifica

C'è sempre, in ogni competizione in cui partecipa la Nazionale, un buon numero di insoddisfatti. Spesso le critiche sono giustificate. Eppure...

Gli azzurri si sono qualificati alle semifinali di Confederations cup, battendo 2 a 1 il Messico, 4 a 3 il Giappone. La terza gara col Brasile, l'altroieri,  decideva solo chi sarebbe stata la prima del girone, essendo entrambe le squadre già qualificate. L'abbiamo persa 4 a 2, con notevoli papere di Buffon, tra l'altro.

E' venuta giù una pioggia di critiche: abbiamo preso 8 goals in tre partite! Difesa colabrodo! Buffon và in pensione!

Al di là dei toni qualche critica è giusta, ma ci dimentichiamo ormai che sempre, salvo rare eccezioni, negli ultimi decenni, L'Italia ha zoppicato, ma molto spesso è andata avanti, arrivando in finale e talvolta vincendo i tornei.

Nel 1982 partimmo male, poi però alzammo la coppa, superando un Brasile fortissimo (con Zico, Socrates e Falcao in squadra), e la Germania.

Nel 1998 abbiamo rischiato di uscire contro una modesta Nigeria. Baggio, con enorme freddezza, piazzò un pallone rasoterra in un angolo della porta e poi realizzò il 2 a 1 ai supplementari su rigore. 
Arrivammo in finale e perdemmo ai rigori col Brasile.

Nel 2006 vincemmo contro l'Australia ai supplementari, grazie a un rigore inesistente. Eppure vincemmo la Coppa del Mondo subendo solo due reti in tutto il torneo: un'autorete  nella seconda partita, se non erro, e un rigore fasullo trasformato da Zidane (contatto fortuito tra Materazzi e un avversario).



Facciamo poi  un resoconto degli ultmi anni.


2000: arriviamo in finale con la Francia,  e siamo in vantaggio fino al termine della gara. I Francesi  pareggiano nei minuti finali e poi ci sorpassano ai supplementari con la regola del golden goal.

2002: siamo eliminati dalla Corea grazie ad una conduzione spregevole di tale arbitro ecuadoregno Byron Moreno.

2004: usciamo dagli europei dopo due pareggi e una vittoria.

2006: Campioni del Mondo.

2008: siamo eliminati agli Europei dalla Spagna ai rigori ai quarti di finale, dopo 120 minuti  in parità. Gli Iberici sono i più forti e vinceranno il torneo.

2010: usciamo dal Mondiale in malo modo

2012: arriviamo alla finale degli europei togliendoci la soddisfazione di battere Germania ed Inghilterra, ma perdendo in finale 4 a 0 contro una Spagna stratosferica.

In conclusione: gli italiani si sono sempre lamentati, ma abbiamo vinto 4 mondiali (uno in più della Germania e uno in meno del Brasile) e un europeo.

Forse è proprio questa ipercriticità a fare da sprone ai nostri giocatori, che sembra giochino male ma poi spesso vincono.








domenica 23 giugno 2013

Lettera aperta al professor Alberto Bagnai

Lettera aperta al prof. Bagnai dell'Università D'Annunzio, il quale ha un blog in cui insegna l'economia e gli utenti possono interagire con lui. Peccato che poi li insulti gratuitamente. 

Egregio professore 

Evidentemente nelle facoltà di economia si apprende la materia, ma non si insegna l'educazione. Le avevo posto, in un commento, alcune domande, premettendo di essere semplicemente una persona che cerca di informarsi.

I miei toni erano stati rispettosi e pacati. Non mi ha degnato nemmeno della pubblicazione delle domande, nè tantomeno di una risposta, ma questo, sebbene poco educato, è tollerabile. 

Non soddisfatto, però, mi vedo incluso nell'articolo successivo, (essendo uno dei non pubblicati e non meritori di una risposta da parte di Sua Santità il professore associato), tra i destinatari di una sfilza di insulti. Lei insulta pesantemente i diretti interessati, senza fare nomi, perchè, si sa, il coraggio nelle facoltà di economia non lo insegnano. Vorrei solo dirle un paio di cose: Come diceva Socrate, so di non sapere. San Francesco si appellava alla santa ignoranza. C'è però un'altra conoscenza che non si apprende dai libri, e che consiste nel saper stare al mondo. 

Ci vuole poco a capire che chi si rivolge con gentilezza, non merita di essere insultato. Stia tranquillo, ce ne sono tanti di maestri, non siamo soli al mondo. Di certo non riconosco come maestro colui che ha carenze a livello umano.

Post scriptum: coi miei colleghi giornalisti della Rai, che di fronte alle telecamere le ponevano domande più ingenue delle mie, non ha avuto gli stessi toni arroganti, chissà perchè.



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Ecco riportato qui in calce il contenuto del chiarissimo professore, coi toni tipici degli accademici   

"(..) Infine, per chi mi segue su Twitter, ricordo le tre semplicissime regole, che valgono anche qui: 

 1) Non avvicinate escrementi alle mie narici. Professoreguardacosadiconodite viene bandito immediatamente. Non ho il tempo di leggere tutti i ragli profferiti dai patetici dilettanti del bestiario italiano, devo dedicarmi ad altro, e il lavoro che abbiamo fatto qui ci ha messo in una posizione tale per cui occupandoci dei patetici dilettanti diamo loro una visibilità che la loro cialtronaggine non merita. Chi non lo capisce, ovviamente, non merita di stare qui. 

2) Non siate petulanti. Professorechennepenza viene bandito immediatamente. Non ho il tempo di leggere tutte le stronzate che vengono dette sull'euro. Il problema euro è risolto. Andiamo avanti sul nostro percorso di conoscenza e di ricerca scientifica e lasciamo chi parla di Zimbabwe al suo allucinato (o interessato) delirio. Aggiungo che sono due anni che mi faccio il culo perché voi sappiate cosa pensare di quello che leggete. Quello che penso io non interessa nemmeno a me e non deve interessare voi. A voi deve interessare quello che pensate voi, cioè se e quanto avete raggiunto una comprensione della crisi. Il modo migliore per verificarlo è provare a spiegarla a un altro. Se non ci riuscite la colpa è vostra (cioè, a monte, mia). L'insegnamento è un gioco asimmetrico: l'insegnante ha tutti i doveri e lo studente tutti i diritti, compreso quello di non capire una fava. È ora che da studenti diventiate insegnanti, così vedrete come ci si diverte, e avrete meno tempo per chiedere a me chennepenZo. 

3) Non siate vittimisti. Professoreperchémicensura viene bandito immediatamente (ma solo dopo esser stato insultato). Ultime notizie: non siete soli al mondo! Non ve ne eravate accorti, lo so. Il lato tragico è che non sono solo nemmeno io, e starei così bene. Qui nessuno censura nessuno, la parola "censura" può essere pronunciata solo da uno che non ha letto o non ha capito le istruzioni per l'uso.

Per una persona simile non posso fare nulla se non ignorarlo. Scusate, so che sembro ruvido, ma so anche che quelli che si comportano così sono una fastidiosa minoranza di disadattati. Meglio togliersela di torno e restare con i tanti, tantissimi che danno un contributo positivo a questo blog. 

La ricchezza di questo blog sono e restano i suoi lettori, è una cosa che colpisce chiunque si accosti ad esso, a partire dai miei colleghi. Ma per costruire e preservare questa ricchezza è stato necessario adottare un principio fondante (non voglio parlare a tutti) e gestirlo con mano ferma. Qualcuno mi sarà grato per queste norme igieniche, qualcuno mi detesterà. Non si può dispiacere a tutti, ma almeno non potrò dire di non averci provato. 
 A presto per cose più sostanziose. "


giovedì 20 giugno 2013

Deja Vu della nazionale: 4-3 col Giappone in Confederations Cup

Il calcio è bello perchè imprevedibile, e talvolta la realtà supera la fantasia. Da oggi tenderemo ad associare la nazionale nipponica a quella tedesca, anche se apparentemente non hanno molto in comune. 
Mentre il presidente del Sol Levante Shinzo Abe intraprende una rocambolesca e a suo modo emozionante opera di rilancio dell'economia nazionale, dopo quindici anni di stagnazione, il pallone con gli occhi a mandorla, dà, da qualche anno a questa parte, segni di vitalità.

Già prima dell'avvento di Zaccheroni in panchina avevamo visto un gioco a tratti interessante ed un movimento calcistico in crescita. Il tecnico romagnolo però, maltrattato un po' in patria e desideroso di rilanciarsi in un contesto molto diverso, ha dato un'anima e un cervello notevole ad una squadra ben disciplinata.

Nessun giocatore giapponese può dirsi un fuoriclasse vero e proprio. Vi sono però diversi elementi che sfiorano quel livello. In più hanno una certa intelligenza tattica, sanno interpretare alla grande i dettami del loro allenatore, sono rapidi, un pò meno magri e bassi dei loro predecessori.

Diversi di loro giocano in importanti squadre europee. Forse alcuni di essi giocano meglio in nazionale che nelle loro squadre di club.

Ieri, a Pernambuco, abbiamo assistito ad uno spettacolo divertente: 7 goals, con un'Italia pasticciona all'inizio ma molto forte dal 35' in poi, e un Giappone che sembrava quasi il Brasile.

Le azioni.

Gli azzurri scendono in campo molli, e il cambio di modulo 4-3-2-1 non fa bene a loro perchè non lo recepiscono. Non riescono a supportare l'unica punta Balotelli e sbagliano i passaggi.  Giaccherini e Aquilani, in funzione di trequartisti atipici, non spingono.

De Sciglio calibra male un passaggio all'indietro al 21', Okazaki si invola , Buffon gli si fa incontro, ma prende prima il pallone e poi lui: non c'è fallo anche perchè il nipponico avrebbe tutto il tempo di far cambiare direzione a sè stesso e alla palla. L'arbitro argentino Abal non è dello stesso avviso e decreta un calcio di rigore, che Honda trasforma.

Ma l'incubo azzurro non è finito: in una mischia in area, Chiellini si disinteressa del pallone e cerca di spingere Kagawa. Si crea un varco e il piccolo e agile giapponese si trova da solo davanti a Buffon, che viene infilato: 2 a 0, i Brasiliani in maggioranza allo stadio di Pernambuco non credono ai loro occhi, e tutti gli altri pure.

Due minuti prima è entrato però un folletto della Juve che cambierà la gara.

Prandelli è un uomo intelligente, e la sua intelligenza in questo caso sta nell'ammettere subito i propri errori. Comprende che quel modulo non può andare e introduce un attaccante di movimento come Giovinco, che ben si presta a supportare l'apollineo Balotelli.

La musica cambia. L'Italia inizia a giocare da Italia, e su cross di Pirlo, una violenta incornata di De Rossi accorcia le distanze al 35'. Pochi minuti dopo un palo di Giaccherini per poco non pareggia i conti.

E' una squadra rigenerata, che in pochi minuti, nel secondo tempo, passa due volte. Il Giappone soffre ora.

Prima Giaccherini si invola sulla sinistra, raggiunge il fondo del campo, riesce ad aggirare un avversario, si accentra e mette in mezzo per Balotelli, tutto solo a due passi dalla porta; interviene però in scivolata Uchida che fa autogoal.

Passa pochissimo tempo  e una respinta involontaria col braccio di Hasabe spinge Abal ad assegnare il penalty. Sebbene non ci fosse l'intenzionalità, le norme Fifa stabiliscono che se il braccio staccato dal corpo colpisce il pallone, è rigore.

Mettiamola così: si poteva anche non dare, il tiro libero, ma anche così le squadre sarebbero 1-1 nel computo dei rigori ingiusti concessi.

Balotelli prende la rincorsa, spiazza con una finta il bravo Kawashima e insacca: 3 a 2.

Il Giappone reagisce: Endo crossa per Oazaki, che con una bellissima torsione di testa batte Buffon. Non ci sono particolari colpe della difesa in questo caso.

Il Giappone continua il suo forcing, l'Italia è stanca e si riversa all'indietro; anche Balotelli dà una mano. All'88' però, il contropiede, che da sempre è la nostra arma migliore, ci permette di guadagnare i tre punti e la qualificazione nel girone: De Rossi sulla trequarti serve a destra per Marchisio, che dal fondo mette in mezzo per Giovinco: da pochi passi e a porta sguarnita è facile per lo Juventino segnare il suo primo goal in Nazionale, dopo un certo numero di presenze.

4 a 3, come con la Germania 43 anni e due giorni prima.

L'Italia è già in semifinale e la terza partita col Brasile, anch'esso già qualificato, sarà solo una sgambata di salute. 

Il Giappone si gioca la consolazione di poter far risultato contro il Messico e marcare tre punti in questo torneo, che l'ha visto poco brillante nella prima gara col Brasile (3 a 0 per i padroni di casa) ma
sontuoso contro l'Italia.

giovedì 13 giugno 2013

mercoledì 12 giugno 2013

Paul Krugman (premio Nobel per l'Economia): le famiglie devono pagare i debiti, gli stati no

Le famiglie sono tenute a rimborsare il loro debiti, ma gli stati no. Tutto quel che devono fare è garantire che il debito cresca più lentamente della base imponibile (la base imponibile è quanto uno stato può recuperare dalle tasse) 

E' quanto afferma il premio Nobel per l'economia del 2008 Paul Krugman ed è un discorso che vale anche per l'Italia se recupera la sua sovranità monetaria.


Nel 2011, come nel 2010, l'America si trovava tecnicamente in ripresa, continuando però a patire di una disoccupazione disastrosamente elevata. Ma per la maggior parte del 2011, come del 2010, quasi tutte le discussioni a Washington riguardavano altro: il problema supposto urgente di ridurre il deficit del bilancio dello stato. Questa attenzione fuori luogo ci dice molto sulla nostra cultura politica, in particolare su come il Congresso sia scollegato dalle sofferenze degli americani comuni. 

Ha inoltre rivelato qualcos'altro: la gente continua a parlare di deficit e del debito, ma in linea di massima non ha idea di cosa si tratti, e le persone che ne parlano di più sono quelle che ne capiscono di meno. 

La cosa forse più evidente e che gli "esperti" della situazione economica sui quali si basa la maggior parte del Congresso hanno ripetutamente totalmente errato sugli effetti di breve periodo del deficit di bilancio. Le persone che si basano su analisi economiche del calibro di quelle della Heritage Foundation si attendevano sin dal momento in cui il presidente Obama si è insediato che il deficit di bilancio facesse salire i tassi di interesse. Ogni giorno! E mentre aspettavano, i tassi sono scesi ai minimi storici. Si poteva pensare che questo avrebbe condotto i politici a mettere in discussione le loro scelte in materia di esperti, o meglio, lo si poteva pensare solo ignorando tutto della nostra politica postmoderna non basata sui fatti. Ma Washington non si è sbagliata solo sul breve periodo, ma anche sul lungo periodo. 

Anche se il debito può essere infatti un problema, il modo in cui i nostri politici e gli esperti pensano al debito è completamente sbagliato, esagerando le dimensioni del problema. 

I guerrieri del deficit dipingono un futuro nel quale saremo tutti impoveriti a causa dalla necessità di rimborsare i soldi avuti in prestito. Vedono l'America come una famiglia che ha preso un mutuo troppo grande, e avrà difficoltà ad effettuare i pagamenti mensili. 

E' questa tuttavia un'analogia completamente sbagliata per almeno due motivi. In primo luogo, le famiglie sono tenute a rimborsare il loro debiti, ma gli stati no. Tutto quel che devono fare è garantire che il debito cresca più lentamente della base imponibile. 

Il debito della Seconda Guerra Mondiale non è mai stato rimborsato, ma e diventato sempre più irrilevante man mano che l'economia americana è cresciuta, e con essa il reddito soggetto a tassazione. In secondo luogo - e questo è il punto che quasi nessuno sembra vedere - una famiglia che ha preso troppi prestiti deve quei soldi a qualcun altro; il debito degli Stati Uniti è costituito, in larga misura, di soldi che dobbiamo a noi stessi. Questa era chiaramente la situazione a proposito del debito contratto per vincere la Seconda Guerra Mondiale. 

I contribuenti erano appesi ad un debito che era significativamente maggiore, come percentuale del PIL, di quello di oggi; questo debito tuttavia era anche di proprietà dei contribuenti, le persone cioè che avevano acquistato titoli di risparmio. Il debito non ha quindi reso più povera l'America del dopoguerra. In particolare, il debito non ha impedito alla generazione del dopoguerra di registrare il maggior aumento del reddito e del livello di vita nella storia del nostro paese. Ma questa volta le cose non stanno forse diversamente? Non quanto si pensi. E' vero che paesi ed entità estere detengono grandi crediti verso gli Stati Uniti, tra le quali una discreta quantità di debito pubblico. 

Ma ogni dollaro di crediti esteri in America è bilanciato da 89 centesimi di crediti esteri degli Stati Uniti. E poiché gli stranieri tendono a piazzare i loro investimenti americani in beni sicuri, di basso rendimento, l'America guadagna in realtà dalle sue attività all'estero più di quanto paghi per gli investimenti esteri. Se state immaginandovi un paese che è in ginocchio davanti ai cinesi, siete stati male informati. E non stiamo muovendoci rapidamente in questa direzione. Ora, il fatto che il debito federale non è affatto un'ipoteca sul futuro dell'America non significa che il debito sia innocuo. Per pagare gli interessi si devono alzare le tasse, e non c'è bisogno di essere un ideologo di destra per ammettere che le tasse mettono un certo peso sull'economia, se non altro provocando un dirottamento delle risorse dalle attività produttive all'elusione e all'evasione fiscale. Ma questi costi sono molto meno drammatici di quanto l'analogia con una famiglia sovraindebitata potrebbe suggerire. Ed è per questo che i paesi con governi stabili e responsabili - governi cioè che sono disposti a imporre tasse un po' più alte quando la situazione lo richiede - sono stati storicamente in grado di vivere con livelli molto più elevati di debito di quanto i luoghi comuni odierni facciano credere. 

La Gran Bretagna, in particolare, ha avuto un debito superiore al 100% del PIL per 81 degli ultimi 170 anni. Quando Keynes scriveva sulla la necessità di percorrere la via d'uscita da una depressione, la Gran Bretagna era più in debito di qualsiasi paese avanzato oggi, con l'eccezione del Giappone. Naturalmente l'America, con il suo movimento conservatore rabbiosamente antitasse non può avere un governo che sia responsabile in questo senso. Ma in questo caso la colpa non sta nel nostro debito, ma in noi stessi. 

Quindi sì, il debito conta. Ma in questo momento, altre cose contano di più. Abbiamo bisogno di una maggiore, non di una minore, spesa pubblica per tirarci fuori dalla trappola della disoccupazione. E l'erronea e infondata ossessione per il debito ci sbarra la strada.


Il New Deal: un esempio per l'Europa di oggi



Nella foto: Franklin Delano Roosvelt

Il New Deal di Roosvelt presenta alcuni punti di cui l'Europa odierna dovrebbe tenere conto.  Ecco un'estratto da Wikipedia, che, sebbene non sempre sia attendibile, in questo caso riassume bene quanto fu fatto.
Da sottolineare fu il fatto che in Italia Mussolini trasse ispirazione proprio dalla politica di welfare del New Deal. Ciò si tradusse ad esempio nella creazione dell'Iri, (Istituto della Ricostruzione Industriale)

Bisogna ricordare un'altra cosa importante: lo stato spese enormi quantità di denaro per mettere in pratica la ripresa delle attività produttive. In altre parole, Roosvelt fece il contrario di ciò che fa l'Europa oggi: spese tantissimi soldi a deficit, per infrastrutture, welfare e altro ancora.


Principali provvedimenti di Roosvelt nel periodo del New Deal

l'Emergency Banking Act che istituì una vacanza bancaria di alcuni giorni al fine di sondare la liquidità e la solidità degli istituti di credito e che assoggettò le banche al controllo dell'amministrazione federale;

 l'istituzione della Federal Deposit Insurance Corporation che assicurava tutti i depositi bancari sino a 2.500 $; 

la sospensione del gold standard che comportò la svalutazione del dollaro e rese possibile il ricorso all'esportazione delle merci come sbocco per la sovrapproduzione statunitense;

 l'Economy Act che introdusse il bilancio federale di emergenza; l'Agricultural Adjustment Act che attribuiva contributi in denaro a quegli agricoltori che avessero limitato la produzione agricola in modo da mettere un freno alla caduta dei prezzi che aveva costretto sul lastrico milioni di agricoltori dell'est.

Altre importanti misure furono: 

l'istituzione della Tennessee Valley Authority, agenzia che impiegò milioni di disoccupati nella costruzione di imponenti dighe al fine di sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee;

 l'istituzione della Works Progress Administration, altra agenzia governativa che gestiva la realizzazione di importanti opere pubbliche;

l'approvazione del Wagner Act che sanciva il diritto di sciopero e della contrattazione collettiva;

l'approvazione del National Industrial Recovery Act che imponeva l'adozione per ogni azienda di un codice di disciplina produttiva limitando la sovrapproduzione, rinunciando al lavoro nero e a quello minorile. La legge prevedeva inoltre dei minimi salariali; 

l'approvazione del Social Security Act che istituiva un moderno welfare state di cui i lavoratori statunitensi erano stati sino ad allora sprovvisti. 

La riforma fiscale di Roosevelt intraprese anche una riforma del sistema fiscale ed in particolar modo delle imposte dirette. Venne così modificata l'imposizione progressiva aumentando le aliquote per i contribuenti più ricchi.

Vi ricorda qualcosa?

L'economista John Kenneth Galbraith ha individuato almeno cinque fattori di debolezza nell'economia americana responsabili dell'inizio della crisi: 
cattiva distribuzione del reddito; 
cattiva struttura, o cattiva gestione delle aziende industriali e finanziarie; 
cattiva struttura del sistema bancario; 
eccesso di prestiti a carattere speculativo (Margin); 
errata scienza economica (perseguimento ossessivo del pareggio di bilancio e quindi assenza di intervento statale considerato un fattore penalizzante per l'economia).

Ditelo ad Angela Merkel e ai nostri governanti, che hanno inserito il pareggio di bilancio nella costituzione.

Economia del Vodoo

Scena tratta dal film "Una pazza giornata di vacanza" ( Ferris Bueller's day off).
L'attore in questione, Ben Stein, è un vero professore universitario. Figlio dell'economista Herbert Stein, (economista e consigliere di Nixon)  è stato autore dei discorsi dei presidenti Richard Nixon e Gerald Ford. Laureato con lode in legge ma arguto commentatore di politica ed economia, è stato inoltre consulente finanziario. Ha svolto una lunga e brillante carriera nel cinema e nella tv, interpretando spesso il ruolo del professore noioso e dalla voce monotona. 




martedì 11 giugno 2013

I video del giorno

Gli Skiantos sono un gruppo demenziale storico che ha spianato la strada a molti altri interpreti del genere, tra i quali Elio e le storie tese.

A parte forse qualche caduta di stile, il cantante Freak Antoni e soci hanno prodotto molti brani interessanti, rimanendo tuttora in attività dopo decenni di musica e vari cambiamenti nella formazione. Sebbene gli Skiantos compaiano poco nelle tv nazionali, i fan vecchi e nuovi continuano ad essere molti accettando sia le loro sortite nel punk, che quelle nell'elettronica alla Righeira ( "Ti spalmo la crema") o nella prosa ritmica "Sono buono".





Shinzo Abe raggiunge i primi successi: il Giappone cresce del 3,5%



Mentre l'Europa si fa male da sola con politiche dettate da una dottrina economica autolesionista, e il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti, il Giappone di Shinzo Abe continua la sua crescita con la ricetta opposta: spesa pubblica, creazione di moneta per finanziare infrastrutture, aziende, salari. Negli ultimi tre mesi l'economia è in rialzo del 3,5% , e le prospettive future sono positive.




domenica 9 giugno 2013

Silvio, siamo alle comiche


Tre giorni fa ha detto in un'intervista a Ferrara di voler uscire dall'Euro, se necessario. Ora si rimangia la parola. Ecco la sua ennesima sparata.

Berlusconi zittisce la sinistra: "Mai detto di uscire dall'euro" L'ex premier respinge le critiche degli "alleati" dopo le frasi sull'Europa: "Ho solo chiesto maggiore solidarietà, la Ue acceleri su fisco e banche" Francesco Cramer - Dom, 09/06/2013 - 07:50 commenta «Ma io non ho mai detto di voler abbandonare l'euro. Anzi, il contrario. Vorrei più Europa e non meno Europa». Questo il pensiero di Berlusconi all'indomani del dibattito feroce innescato dal suo colloquio al Foglio. Un'intervista nella quale l'ex premier metteva il dito nella piaga di un'Europa a trazione teutonica, troppo egoista e miope. Certa stampa e non pochi esponenti del Pd hanno però subito alzato il ditino ammonitore: Berlusconi vuole farci uscire dall'euro e dall'Europa. «Falsità», si lamenta il Cavaliere. Il quale ribadisce il suo pensiero: ho soltanto detto che l'Europa deve cambiare e serve maggiore solidarietà tra gli Stati. Non solo: dobbiamo accelerare per avere una maggiore unione tra gli Stati membri. Unione economica, fiscale, politica e bancaria. Non sono io che non la voglio ma la Merkel. E se fosse per Berlusconi, il governo italiano dovrebbe farsi promotore in Europa di una campagna volta all'introduzione degli Eurobond e alla modifica dei poteri della Bce. La quale deve diventare banca prestatrice di ultima istanza e aiutare le banche nazionali a finanziare le piccole e medie imprese. Altro che antieuropeista. Tuttavia, sebbene sia rimasto amareggiato da quanti hanno travisato il suo pensiero, il Cavaliere fa spallucce. Non è il momento di alimentare le polemiche con l'alleato di governo. Un compagno di strada, il Pd, scelto non certo per amore ma per l'interesse generale del Paese. Le larghe intese sono imposte dalla situazione contingente e Berlusconi si sente quasi obbligato a rinsaldare la «strana alleanza». Un obiettivo è quello di scrivere assieme alla sinistra una risoluzione da votare in Parlamento, a larghissima maggioranza, che dia mandato a Letta di far sentire le nostre ragioni in quel di Bruxelles. Il Cavaliere è ottimista, sebbene da sinistra si sia alzato il solito fuoco di fila contro di lui. Critiche ideologiche visto che Berlusconi è convinto che la battaglia comune in Europa serve a rafforzare l'esecutivo e non a indebolirlo. A difendere Berlusconi ci sono molti esponenti del Pdl. Da Sacconi: «Berlusconi ha evidenziato correttamente il nodo di una Europa ancora incerta tra una dimensione pangermanica ed una visione che incorpori e valorizzi la sua area mediterranea»; a Galan: «È solo un brusio “sinistro” che si leva a criticare una visione concreta, lungimirante e profonda come quella espressa dal presidente Berlusconi. Una linea chiara e positiva, dove, voler trovare minacce ad altri paesi è puro esercizio di faziosità»; passando per Gasparri: «Berlusconi ha giustamente posto in evidenza che senza una nuova politica economica europea l'Italia da sola non va da nessuna parte. Un'Europa ad esclusiva trazione tedesca ha mostrato tutti i suoi limiti e fallimenti. È tempo di voltare pagina». E per finire Bondi: «Berlusconi ha posto non solo una questione di carattere economico, ma anche una riflessione di ordine storico e culturale riguardante il ruolo della Germania in Europa». Insomma, tutto il partito fa quadrato attorno al leader. Il quale più che i vertici del Pd teme alcuni settori della magistratura e quelle schegge dei democratici che fanno il tifo per i giudici più politicizzati. Toghe che hanno disegno chiaro: distruggere lui e le larghe intese. Ma è proprio per difendere il governo e condizionarne l'operato il più possibile che il Cavaliere continua a mordersi la lingua e stare in silenzio.

Due articoli del Foglio sulle dichiarazioni anti-euro di Berlusconi

Merkel già gioca a "braccio di ferro"

Un “braccio di ferro a Berlino” è ciò che occorre, secondo l’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per rilanciare il governo di grande coalizione guidato da Enrico Letta. Una trattativa estremamente ardita per rafforzare la potenza di fuoco della Banca centrale europea: “O è così o ciascuno deve trovare le proprie soluzioni nazionali o regionali, scomponendo i meccanismi dell’area dell’euro”. 

Euro break up, insomma. Non è affatto casuale che questo “braccio di ferro”, come l’ha chiamato il Cav. nella sua intervista di ieri al Foglio, si debba giocare a Berlino. Non soltanto perché la Germania è la prima potenza economica dell’Unione europea, ma perché per giocare a braccio di ferro bisogna essere in due, e Berlino – nonostante il wishful thinking di chi legge le esternazioni del Cav. soltanto in chiave domestica – in questo gioco si sta cimentando da tempo, come dimostrano alcune evoluzioni della politica monetaria e fiscale dell’Eurozona. 

 Per decifrare le forti pressioni politiche in arrivo dal governo di Angela Merkel, si parta dalla politica monetaria. Due giorni fa il presidente della Bce, Mario Draghi, ha parlato e ha fatto deprimere i mercati. Le Borse si riprenderanno, ovvio, ma intanto molti osservatori iniziano a contare i giorni prima che svanisca l’effetto “scudo” della politica monetaria espansiva. Lo spread a quel punto tornerà a salire, con annessi aggravi di spesa per le finanze pubbliche e con ulteriori strette sul credito privato. Ai mercati non è piaciuta la temporanea ammissione di impotenza di Draghi: niente tagli al tasso di riferimento, niente misure straordinarie per le Pmi (rimangono “allo studio”), niente tassi negativi sui depositi bancari. 

Occorre un’Unione bancaria dotata di un efficace meccanismo di risoluzione delle banche in crisi, ha auspicato Draghi, ma anche su questo nessun passo avanti. Innanzitutto perché il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha chiarito che un’Unione bancaria troppo “unita”, in cui supervisione finanziaria e meccanismo di risoluzione siano gestiti dalla Bce, non va giù ai tedeschi e ai loro banchieri, se non nel lungo periodo.

Non solo: mentre Berlino ripete il mantra della necessaria “non interferenza” degli stati membri nella politica monetaria, in Germania è partita un’offensiva contro la scelta finora più coraggiosa ed efficace di Draghi, quella dell’Omt – cioè l’Outright monetary transactions, l’ipotesi di acquisto illimitato di titoli di stato di paesi in crisi – che ha placato lo spread e le aggressioni ai debiti sovrani a partire dalla scorsa estate. La prossima settimana a Karlsruhe si inizia infatti a discutere un ricorso anti Omt depositato da un parlamentare tedesco davanti alla Corte costituzionale federale tedesca. La Banca centrale tedesca, la Bundesbank, azionista di maggioranza relativa della Bce, non si è fatta sfuggire l’occasione e curiosamente ha preso le parti del ricorrente. Così la settimana prossima il presidente Jens Weidmann, ex consigliere di Merkel, sarà in tribunale a censurare pubblicamente Draghi, mentre quest’ultimo dovrà difendersi con tanto di avvocati (vedi articoli sotto). Siamo alla riproposizione dello stallo durato mesi e che caratterizzò il 2012, quando i vertici europei si chiudevano regolarmente con conclusioni ben poco definitive, essendoci allora il timore che i giudici di Karlsruhe facessero saltare il Meccanismo europeo di stabilizzazione, l’Esm. Sul Sole 24 Ore di ieri, Donato Masciandaro, bocconiano pacato e massimo esperto di Banche centrali, ha parlato apertamente di “ostilità tedesche” verso le scelte di Draghi e ha spiegato che dietro “il conservatorismo della Bce” ci possono essere non ragioni economiche ma “ragioni tattiche, legate alla politica interna tedesca”. 

“E’ un dubbio lecito che andrebbe fugato”, ha concluso Masciandaro, perché “l’incertezza genera incertezza, rischiando di minare la credibilità della Bce come autorità di tutela della moneta europea, indipendente da ogni politica affetta da miopia. Anche se di matrice tedesca”. Da martedì dunque, a Karlsruhe, l’establishment teutonico riprende un nuovo round decisivo a “braccio di ferro”. Chi non vi partecipa, come dimostrano i rendimenti sui bond statali che tornano a salire e il credito bancario che si continua a inaridire nei paesi periferici, ha soltanto da perdere. Certo, anche l’economia tedesca rallenta (ieri la Bundesbank ha detto che il pil crescerà dello 0,3 per cento quest’anno e non dello 0,4, l’anno prossimo dell’1,5 e non più dell’1,9), ma la situazione è anni luce da quella italiana o spagnola, a partire dai prestiti bancari che continuano ad affluire verso imprese che tra l’altro si possono finanziare convenientemente anche sul mercato obbligazionario. Così la Germania, che pure ha fatto le riforme strutturali per tempo (era l’inizio degli anni 2000, quando Berlino sforò il tetto del rapporto deficit/pil senza ricevere sanzione alcuna), da tempo si può permettere di osannare la prospettiva a lungo termine dell’Unione politica europea, salvo renderla irrealizzabile qui e ora (no all’Unione bancaria, no agli Eurobond, no a più fondi all’Ue, eccetera). Eppure, come ha spiegato al Foglio l’ex vice di Ben Bernanke, Donald Kohn, e come ha detto ieri il premio Nobel Paul Krugman, una Bce che non ha alle spalle una struttura di protezione fiscale unica non può fare molto di più di quanto faccia oggi. Intanto, anche sulle modalità con cui gestire il coordinamento delle politiche fiscali nazionali, Berlino continua con il suo “braccio di ferro”. Si prenda il caso esemplare della Grecia. Questa settimana il Fondo monetario internazionale ha pubblicato un rapporto su Atene, facendo mea culpa sugli errori commessi nel 2010. 

Il problema non è soltanto l’eccesso di austerity e i suoi effetti recessivi presi un po’ sottogamba, come vuole la vulgata. Piuttosto, sostiene Luigi Zingales, economista dell’Università di Chicago non etichettabile come neokeynesiano spendaccione, “la vera colpa ammessa dall’Fmi è di non aver tentato, fin dall’inizio, una ristrutturazione del debito”. Cioè un default controllato che riducesse il fardello del debito pubblico di Atene e consentisse di concentrarsi su rigore temperato e riforme strutturali. Allora un coinvolgimento dei privati, tra cui molte banche tedesche e francesi, avrebbe creato più danni che altro, era la tesi dell’Ue a trazione tedesca, accusa il Fmi. 

Dunque non solo in Grecia, dice Zingales, ma anche in Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia, “la Troika ha scelto di imporre tutto il peso dell’aggiustamento sui paesi debitori, senza considerare che l’errore non è solo di chi prende a prestito, ma anche di colui che questi prestiti concede”. Il Fmi ha fatto mea culpa, ma a Berlino quando ci penseranno? Per ora, Cav. o non Cav., la leadership tedesca continua con il braccio di ferro.



Minacciare Berlino, poi uscire davvero. Per Bootle è “l’idea più ragionevole”

di Marco Valerio Lo Prete
Non bisogna soltanto far capire a Berlino che Roma è pronta a uscire dall’euro se l’architettura della moneta unica non cambierà. Bisogna poi farlo davvero. Perseguire questa linea “è l’idea più ragionevole”, dice al Foglio Roger Bootle, fondatore e direttore di Capital Economics, commentando l’intervista di ieri al Foglio dell’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Soltanto così si può contrastare il processo di “deindustrializzazione” in corso, visto che i dislivelli di competitività tra paesi dell’Eurozona sono ormai viziati anche da effetti monetari e di costo indipendenti dalle riforme che pure vanno portate a termine. Bootle è a capo di una società di ricerca economica britannica con sede tripartita tra Londra, Singapore e Toronto, dirige 40 economisti e rifornisce con i suoi report 1.500 tra banche d’investimento e operatori in tutto il mondo. Soprattutto, Bootle nel 2012 si è aggiudicato il premio più importante per le materie economiche dopo il Nobel, cioè il Wolfson Prize. L’anno scorso il premio ha avuto particolare risonanza sui media internazionali ed è stato apprezzato dal Financial Times perché finalmente sdoganava quello che fino a quel momento era stato un tabù nel dibattito pubblico: avrebbe vinto infatti chi avesse studiato la via migliore, per un paese qualsiasi, per uscire dall’euro. Bootle si è meritato le 250 mila sterline per il primo classificato e ora commenta così l’idea di Berlusconi: “E’ un’opzione reale, è fattibile, non è impossibile”. Anche per un paese grande come l’Italia, con un pil di 1.600 miliardi di euro e un debito pubblico ancora maggiore? “Per me è l’opzione più realistica”. Il piano di Bootle – al netto di dettagli pur importantissimi – prevede che un paese abbandoni la moneta unica tenendo i suoi piani “segreti” fino all’ultimo, poi introduca controlli di capitale, inizi a stampare moneta subito dopo l’uscita formale, faccia default sui suoi debiti, ricapitalizzi le banche e, anche attraverso la naturale svalutazione monetaria, punti tutto sull’export e sulla cooperazione con i paesi rimasti nell’euro. Non è una passeggiata, sia chiaro, ma per l’economista inglese gli effetti complessivi sarebbero migliori del “decennio di stagnazione” cui è condannato oggi il nostro paese. Bootle, in passato consigliere economico dei governi conservatori, osserva che non tutto il processo di “distruzione” innescato dal ciclo economico è lì per nuocere. “E’ normale che i settori più inefficienti siano penalizzati, poi però è normale pure che si abbiano altre occasioni di reimpiegare capitale e forza lavoro”. E’ questa seconda fase che oggi, almeno in parte, viene a mancare per le rigidità dell’euro. C’entrano anche le mancate riforme strutturali, certo, e il fatto che allo stesso tempo sia venuta a mancare l’arma della svalutazione della lira per riguadagnare competitività. “Oggi quindi il tasso di cambio reale rispetto ad altri paesi dell’Eurozona, in Italia ma anche in Francia e Spagna, è cresciuto troppo. Ci sono tre opzioni per recuperare: facendo aumentare la produttività, si può arrivare a guadagnare un quarto di punto l’anno ma quanto ci si impiega per recuperare un gap del 30 per cento? Poi si possono tagliare i salari, come in Grecia e Irlanda, ma l’economia si deprime e il debito aumenta. Non è il massimo. Infine si può svalutare la moneta e riguadagnare subito competitività. Nel caso dell’Italia si dovrebbe uscire dall’euro”. Berlusconi però non si definisce un sostenitore della fine della moneta unica, piuttosto propone di trattare con Berlino tenendo questa ipotesi estrema sul tavolo. “Effettivamente almeno due cose si potrebbero cambiare nell’attuale governance economica. Primo, chiedendo che la Bce attivi una politica di Quantitative easing in stile Fed. Secondo, rilassando la politica fiscale nei paesi del nord virtuoso e sostenendo così la periferia”. Il fondatore di Capital Economics però avverte: “La Germania non si muoverà. I tedeschi hanno un blocco mentale rispetto all’uso della politica monetaria. Pensano che davvero gli indicatori di ‘competitività’ abbiano sempre un significato ‘reale’, cioè ci dicano se l’operaio italiano sa o non sa fare bene una certa cosa. Mentre nella realtà pesano fattori di costo e monetari che con l’abilità dei lavoratori c’entrano poco. Provino a fare Mercedes in Italia, per esempio, con l’accesso al credito che c’è da voi”. Per Bootle però Berlino considererà soltanto l’elemento di “ricatto” in quello che pure fosse un tentativo di “brinkmanship”, come l’ha definito ieri Michele Salvati sul Corriere della Sera, cioè una politica che consiste nel “manovrare una situazione rischiosa, ai limiti della sicurezza”: “Berlino andrà a vedere l’ipotetico bluff e non si muoverà. Se l’Italia a quel punto non desse seguito ai suoi intendimenti di abbandonare l’euro, perderebbe tutta la credibilità. Se invece si decidesse a farlo, dovrà avere un piano dettagliato, altrimenti anche l’aggiustamento improvviso avrà effetti dolorosi”.


E avete ancora il coraggio di criticarlo?


Quando in passato ho ritenuto giusto criticare alcune scelte della Pescara calcio, non mi sono tirato indietro. Allo stesso modo, da tempo affermo che i proprietari attuali, ovvero Sebastiani e soci, hanno svolto, in generale, un operato estremamente positivo.

Il Delfino Pescara, in pochi anni, è salito dalla lega Pro 1 (ex serie C1) alla massima serie, ed ora è in serie B con il bilancio in attivo (indispensabile per evitare sanzioni ed un eventuale fallimento).

Si ci è lamentati per i prezzi troppo alti dei biglietti in serie A.
Io sostengo che 20 euro per un biglietto di curva, in tale contesto, non sia un corrispettivo alto. Ci sono società che hanno fatto pagare 26 euro biglietti in curva per partite della serie B Italiana. In Inghilterra si raggiungono prezzi stratosferici, per le partite di calcio. Nel 2010, a Norwich, un biglietto per una partita di serie B costava l'equivalente di 33 euro ( e i salari lì non sono molto più alti, rispetto all'Italia).

Quando il Pescara era in B e in C1, qualche anno fa, i biglietti in curva, nella maggior parte delle partite, costavano pochissimo: talora anche 6 o 7 euro. In alcuni casi i tagliandi in curva costarono solo 1 euro, in altri casi 10-11 euro.

Di cosa si lamentano, certi tifosi?

Ecco un articolo pubblicato ieri su Forzapescara.net


"Alle 10.30 nella sala conferenze della Humangest di via Vomano a Pescara, si è tenuta la conferenza stampa di presentazione della campagna abbonamenti 2013/2014. 

Ecco il riepilogo dei prezzi e delle promozioni di quest'anno: Prelazione abbonati 2012/2013 (vendita dal 01/07/2013): 
Curva 110 euro (Ridotti 65 euro) 
Tribuna Adriatica Centrale: 240 euro (Ridotti 145 euro) 
Tribuna Adriatica Laterale: 200 euro (Ridotti 120 euro) 
Tribuna Majella Laterale: 410 euro (Ridotti 245 euro) 
Tribuna Majella Centrale: 590 euro (Ridotti 355 euro) Poltronissima: 890 euro (Ridotti 535 euro)

Per chi rinnova l'abbonamento il prezzo sarà bloccato anche per la stagione 2014/2015. Valido anche per quelli che hanno sottoscritto il voucher a 10 gare dello scorso anno. 

Nuovi abbonati (vendita dal 08/07/2013):
Curva 140 euro (Ridotti 85 euro) 
Tribuna Adriatica Centrale 290 euro (Ridotti 175 euro)
Tribuna Adriatica Laterale 240 euro (Ridotti 145 euro) 
Tribuna Majella Laterale: 470 euro (Ridotti 280 euro) 
Tribuna Majella Centrale: 660 euro (Ridotti 395 euro) Poltronissima: 960 euro (Ridotti 575 euro) I ridotti valgono per tutti gli under 18, donne, over 65 (nati fino al 31/12/1948), invalidi iscritti a: ANMIC, ANMIL, ANMIG, ENS, UNMS. 
I minori di 7 anni entrano gratis. Family Pack: presentando lo stato di famiglia, dopo l'acquisto del primo abbonamento intero, sconto del 15% per il secondo famigliare, 25% il terzo, 40% il quarto. Il quinto componente pagherà 15 euro in tutti i settori dello stadio. 
Il pacchetto family vale anche per i ridotti. Gli sconti si applicano sul prezzo dell'abbonamento ridotto (es.: in Curva, lo sconto del 15% per il secondo famigliare porterà il costo dell'abbonamento a 70 euro). 
Da quest'anno sarà disponibile la fidelity card away, valida per andare in trasferta SENZA sottoscrivere la tessera del tifoso. La società metterà a disposizione 1000 ABBONAMENTI GRATUITI per i DISOCCUPATI iscritti al centro per l'impiego. 
Presentato ufficialmente il nuovo D.S. GIORGIO REPETTO e annunciato l'ingaggio di PASQUALE MARINO come allenatore.

Trattativa ben avviata per un'amichevole estiva contro il SYDNEY F.C., squadra in cui milita ALESSANDRO DEL PIERO, e per la partecipazione al TROFEO COLOMBINO a Huelva in Spagna".


giovedì 6 giugno 2013

Eugenio Benetazzo spiega in maniera illuminante i vari aspetti del debito pubblico

Il debito pubblico si riduce con la crescita economica. Ma come si crea crescita? Stampando moneta A DEBITO, che verrà recuperata dalle superiori entrate fiscali. Lo stato finanzia infrastrutture, assunzioni, scuole, ospedali, creando benessere e lavoro. L'economia si rimette in circolo, le banche ricominciano a dare  credito alle aziende, che rifioriscono e assumono. La popolazione riprende a consumare. Assumere personale pubblico non è una sciocchezza nella situazione attuale: sarà gente con uno stipendio che alimenterà i consumi.

Chi blatera contro le infrastrutture e le opere pubbliche, ed è contrario ad ogni ponte, ferrovia, porto, aeroporto che viene costruito, non si rende conto che queste cose generano benessere, perchè attraggono investimenti, facilitano il commercio, il turismo, gli scambi commerciali, il trasporto delle merci.

mi soffermo su una delle spiegazioni dell'economista Benetazzo: "un'azione di politica economica deflattiva ( e depressiva per l'economia, aggiungo io) avvantaggia i creditori, ovvero le banche che hanno prestato soldi agli stati, una politica inflattiva (quella perseguita fino a 30 anni fa dall'Italia, che creava benessere) fa l'interesse dei debitori".

Il punto è che gli stati non avevano bisogno di farsi prestare i soldi dalle banche, perchè emissori di moneta.
Con la privatizzazione delle banche centrali e l'ingresso nell'euro gli stati hanno rinunciato a stampare moneta e se la fanno prestare, pagando gli interessi e finanziandosi con tasse sempre più esose a danno dei cittadini.

Ecco perchè gli stati europei come il nostro sono asserviti alle banche.

Uscire dall'euro e ri-nazionalizzare la banca centrale, facendola tornare sotto il controllo del ministero del tesoro, vuol dire ritornare alla sovranità (non solo monetaria) del popolo e al benessere.

Debito pubblico e processo, moneta buona e moneta cattiva

La disgiunzione tra la Banca Centrale e ministero del tesoro ha aumentato la svalutazione della moneta e il debito pubblico. A causa degli interessi il debito pubblico di tante nazioni aumenta esponenzialmente in virtù degli interessi su questo meccanismo. E' impossibile ripagare il debito pubblico, non è necessario e non si tratta di un debito contratto dai cittadini verso altri soggetti. Dipende, in buona parte, da meccanismi finanziari.







mercoledì 5 giugno 2013

Storia dei default tedeschi: da quale pulpito ci fanno la predica.


Berlino ci dà lezioni a per ben tre volte non ha pagato i debiti 

Tedeschi moralisti con l'Italia però sono stati sempre salvati quando sono andati in default

Antonio Salvi - Il Giornale -  *Preside Facoltà Economia Università Lum "Jean Monnet"



Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. 

E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

 Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. 

Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. 

Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». 

Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo).

I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. 

In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). 

Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). 

Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole: 

 1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo! 

 2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni; 

 3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali. Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. 

Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. 

 Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. 

Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». 

Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

martedì 4 giugno 2013

La lettera con cui Trichet ha chiesto la distruzione del nostro welfare al governo italiano

Leggete un po' con che faccia tosta l'ex presidente della Banca Centrale Europea Jean Claude Trichet ha chiesto la distruzione del nostro stato sociale Caro Primo Ministro, Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. 

Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori. Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». 

Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali. Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti. Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure: 

1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed è cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro. 

a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala. 

 b) C'è anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione. 

c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi. 

 2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche. a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi. 

 b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali. 

 c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo. Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio. 

3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). 

C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali. Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate. 

Con la migliore considerazione, Mario Draghi, Jean-Claude Trichet


Ascoltate cosa dice Bernd Raffelhüschen


Bernd Raffelhüschen, economista

Il Paese più virtuoso sul fronte del debito nell'eurozona? É l'Italia, molto migliore della Germania. Non è uno scherzo, ma il frutto di un serissimo studio della fondazione tedesca Stiftung Marktwirtschaft ("Economia di mercato"), presieduta dall'economista Bernd Raffelhüschen, professore di Scienze finanziarie presso l'Università di Friburgo, in Germania, ed esperto di evoluzione demografica. Due giorni fa il professore, elogiando l'Italia, ha accusato il governo tedesco di seguire un percorso di indebitamente insostenibile a colpi di «regali» nel campo dello Stato sociale.

Lo studio della Fondazione - pubblicato a fine 2011 ma passato, curiosamente, piuttosto inosservato, almeno dalle nostre parti - stila una vera e propria classifica della sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche (sulla base dei dati 2010) dei 12 Stati fondatori dell'euro (esclusi sono dunque i cinque "ultimi arrivati": Slovenia, Slovacchia, Estonia, Cipro e Malta). Il titolo del relativo comunicato stampa la dice lunga: «Italia urrà, Lussemburgo puah». La classifica tiene conto non solo di quello che la fondazione chiama «esplicito» (il «classico» debito pubblico, pari a circa il 120% del pil per l'Italia), ma anche il debito implicito legato soprattutto all'invecchiamento: pensioni in maturazione nei prossimi anni, la spesa sanitaria, il saldo primario e quant'altro.



«Sono possibili calcoli molto precisi sulla scorta dei dati ufficiali, ad esempio sul numero di persone che andranno in pensione nei prossimi anni», spiega a chi scrive lo stesso Raffelhüschen. «Il debito implicito - aggiunge - dipende in modo decisivo dal previsto aumento delle spese legate all'invecchiamento». Per la Germania, ha detto il professore a Berlino, il quadro non è allegro: riforma fiscale, pensionistica (con generose integrazioni delle minime), aumento delle prestazioni sanitarie per alcune malattie tipiche della cosiddetta terza età (ad esempio l'Alzheimer), faranno esplodere nei prossimi anni il debito tedesco. Una cifra per tutte: secondo il professore nel 2050 lo Stato tedesco e i länder dovranno spendere 1.360 miliardi di euro solo per le pensioni (di cui 870 miliardi di euro per 1,38 milioni di dipendenti pubblici). Una cifra colossale, se si pensa che l'attuale debito pubblico della Germania (quello "esplicito") è intorno ai 1.900 miliardi.

Per l'Italia, invece, il quadro è molto migliore: il Belpaese, dice l'economista, «dopo la Francia (che comunque è solo quinta nella «classifica», ndr) secondo le nostre stime sarà il Paese con il più basso incremento di spese per pensioni, sanità e assistenza per anziani». Inoltre, sottolinea l'economista, «il saldo primario italiano è molto incoraggiante». In questo senso, si legge nello studio, «l'Italia non solo precede chiaramente la "locomotiva" Germania, ma anche tutti gli altri stati dell'Euro a 12. E dunque l'Italia può contare, a lungo termine, su uno sviluppo positivo delle finanze pubbliche».

Passiamo alle cifre: secondo lo studio, nel 2010 il debito «esplicito» italiano era pari al 118,4% del Pil, quello «implicito», per le ragioni già indicate, al 27,6%, il più basso di tutta l'eurozona a 12. Il totale del debito «vero» dell'Italia in quell'anno era dunque, secondo lo studio, pari al 146% del Pil: di qui il primo posto. Se andiamo a vedere la Germania, seconda «classificata», il debito «esplicito» era dell'83,2% del Pil, ma quello «implicito» del 109,4 per cento. Totale: 192,6%, quasi il 50% più dell'Italia. La cosa più sorprendente, però, è chi troviamo nei piani bassi della classifica, come si intuiva dal titolo: se all'ultimo posto è l'Irlanda, Paese già sotto programma di aiuti, che arriva alla quota complessiva di 1.497,2% del Pil (di cui 1.404,7% di debito «implicito»), al penultimo, però, e peggio della Grecia (terzultimo posto), troviamo nientemeno che il ricco e tranquillo Lussemburgo: se il suo debito pubblico «ufficiale» nel 2010 era pari ad appena il 19,1% del Pil (e infatti il Granducato è considerato tra i paesi più «virtuosi» dell'eurozona), la bomba previdenziale-demografica porta al 1.096,5% del Pil il debito «implicito», per un debito totale del 1.115,6% del Pil.

«Il sistema pensionistico e previdenziale lussemburghese - spiega ancora Raffelhüschen - è follemente generoso e completamente insostenibile a lungo termine. Del Granducato si può dire che ha davanti a sé tutte le riforme che paesi come Italia o Spagna stanno attuando dolorosamente in questi anni». Del resto non molto bene sta la "virtuosa" Olanda, ottava in classifica, che a fronte di un debito «dichiarato» del 61% del Pil, secondo lo studio della Stiftung Martkwirtschaft ha un debito implicito del 431,8% del Pil, per un totale del 494,6%. Certamente sta peggio del Portogallo (sesto in classifica), e appena meglio della Spagna (nono posto).

L'Italia, sostiene l'economista, invece «non deve fare altro che proseguire il cammino iniziato, guai a invertire la rotta e tornare ad aumentare la spesa per lo Stato sociale». Un monito che a molti, certo, dalle nostra parti non piacerà tanto. Se però Raffelhüschen ha ragione, questa situazione ci consentirà, tra qualche decennio, di stare molto meglio di paesi come il Lussemburgo, ma anche la Germania. E infatti nei calcoli della sua Fondazione, l'Italia - rispetto ai dati del 2010 - ha un reale bisogno di correzione, per garantire la piena sostenibilità del debito, del 2,4% del Pil (una quarantina di miliardi di euro) - contro, ad esempio, il 12% del Lussemburgo, o il 4% della Germania.

«Sempre che - commenta cinico l'economista - qualcosa non ammazzi prima l'Italia». Perché se a lungo termine, come abbiamo visto, le prospettive italiane sono piuttosto buone, il problema è «a breve-medio termine»,  spiega il professore. «Vista la bassa crescita - recita il rapporto - gli avanzi primari basteranno al massimo a stabilizzare il debito italiano nei prossimi anni, ma resteranno ben lungi dal ridurlo in modo significativo». Ed è quello cui, ahimé, guardano i mercati, i quali, aggiunge serafico lo studioso, «ragionano in orizzonti molto più brevi, non hanno la pazienza di guardare alle prospettive nell'arco di decenni». E già, perché se dessero retta alla classifica di lungo termine del professor Raffelhüschen, gli spread tra Italia e la Germania dovrebbero essere esattamente al contrario. Magari ci arrivano.



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La Germania Unita che trucca i conti

Mentre a noi imponevano di tagliare la spesa pubblica, quella che finanziava il nostro benessere, in Germania la Cee consentiva alla Germania appena unificata di spendere miliardi di marchi a debito per risollevare l'economia comunista dell'est. Quello che sorprenderà qualcuno è che la Germania, ancora oggi, trucca i conti!

BERLINO – La Germania trucca i conti: è la tesi di Maurizio Belpietro, che su Libera cita un editoriale dell’Handelsblatt, quotidiano economico-finanziario tedesco, a sua volta citato da un lettore del Corriere della Sera in una lettera al giornale di via Solferino: in questo editoriale un economista faceva i conti in tasca alla Germania, e il risultato era che il debito reale era molto più alto di quello dichiarato all’Unione europea. Nei calcoli forniti a Bruxelles i tedeschi avrebbero evitato di includere pensioni e servizi sociali, ovvero la parte più costosa della spesa pubblica. I dati sono stati controllati dai cronisti di Libero, e risulterebbe che effettivamente la Germania, senza trucchi, ha un debito di 7mila miliardi di euro, oltre il triplo di quel che dichiara. Il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, secondo i conti controllati, non sarebbe dell’85 per cento ma del 197, cioè, scrive Libero, 77 punti più di quello italiano, e superiore persino a quello della Grecia. A riscattare l’onore dell’Italia è stata anche la Fondazione tedesca Marktwirtschaft (economia di mercato), che riunisce personalità del riformismo liberale tedesco. Secondo quanto riporta a riguardo Libero, nella classifica della Fondazione l’Italia risulta prima per quanto riguarda la sostenibilità del debito pubblico. La Germania viene seconda, la Francia addirittura quinta. La giuria della Fondazione, scrive Libero, ha valutato la rispettabilità nazionale, distinguendo tra debito pubblico esplicito e implicito. L’Italia viene premiata perché il divario di sostenibilità tra i due indici è “il più encomiabile”, e Roma ha un fabbisogno di consolidamento di appena il 2,4 per cento. Il problema dell’Italia, secondo Bernd Raffelhuschen, promotore della ricerca, è la “spesa ingente per pagare gli interessi sul debito”, altrimenti Roma “avrebbe una posizione molto solida”. Per quanto riguarda la Germania, sottolinea Raffelhuschen, ha il debito pubblico maggiore in Europa: 2080 miliardi, secondo Eurostat, pari all’83,2 per cento del prodotto interno lordo. Per di più, sottolinea Libero, Angela Merkel “predica l’austerità agli europei, ma la Finanziaria 2012 prevede un aumento del deficit da 20 a 26 miliardi”. E “la maggior spesa finanzierà tra l’altro l’aumento in media di 600 euro per le pensioni d’oro degli alti burocrati”.

http://www.blitzquotidiano.it/economia/germania-angela-merkel-debito-pubblico-pil-1059572/

L'inflazione è sconfitta! Ora però l'Italia è povera

Ecco l''andamento dell'inflazione in Italia. Evvai abbiamo debellato questo nostro grande nemico! L'inflazione è scesa!

E' vero, l'inflazione è scesa e noi ci siamo impoveriti.

Ci hanno detto, falsamente, che l'inflazione era un male, e invece essa era il segnale della nostra crescita economica. 

L'hanno spesso volontariamente confusa con l'iperinflazione, (quella, per intenderci, della Repubblica di Weimar) che è un'altra cosa.

Il tutto per giustificare il disegno dell'alta finanza di appropriarsi delle risorse pubbliche a danno dei popoli.

Da notare è come l'inflazione aumenti negli anni delle due crisi petrolifere (1973-1975 e 1979-1980): per il resto, si tratta di valori molto contenuti ( a parte il periodo post-bellico). I salari venivano adeguati al costo della vita (vedi anche la famosa "scala mobile").


19552.3%
19563.4%
19571.3%
19582.9%
1959-0.5%
19602.4%
19612.1%
19624.7%
19637.5%
19645.9%
19654.5%
19662.3%
19673.7%
19681.3%
19692.7%
19705.0%
19714.8%
19725.7%
197310.8%
197419.2%
197517.0%
197616.7%
197717.0%
197812.1%
197914.8%
198021.2%
198117.8%
198216.5%
198314.7%
198410.8%
19859.2%
19865.8%
19874.7%
19885.1%
19896.3%
19906.5%
19916.3%
19925.3%
19934.6%
19944.1%
19955.2%
19964.0%
19972.0%
19982.0%
19991.7%
20002.5%
20012.8%
20022.5%
20032.7%
20042.2%
20052.0%
20062.1%
20071.8%
20083.3%
20090.8%
20101.5%
20112.8%
20123.0%